“Finalmente a San
Francisco. È lì,
nella città che prende il nome da Francesco d’Assisi ma che in Italia è un
suono speciale, un’immagine, un sogno, che ho pensato che davvero si poteva
cambiare la vita di tanti uomini e donne rinchiusi in un altro mondo, un mondo
che ancora conoscevo poco. Era un giorno di novembre del 2000…”. Comincia così
il diario di Mario Marazziti, uno dei fondatori della Coalizione mondiale
contro la pena di morte, nata con il contributo della Comunità di Sant’Egidio.
Parte da una data che è un ricordo comune. Anche per me, 17 anni fa, cominciava
una storia nuova: a San Francisco misi radici, nel mio girovagare di nomade
globale. Nel luglio 2000 mi raggiunsero moglie e figli, per l’inizio della
nostra lunga avventura californiana. La mia missione numero uno era raccontare
la prima rivoluzione di Internet, negli anni d’oro di Steve Jobs, un’epoca
ormai remota in cui Google era semi-sconosciuto e Facebook non era ancora nato.
Seconda missione: usare la West Coast come un osservatorio e un trampolino di
lancio, esplorare le nuove frontiere della globalizzazione che allora procedeva
impetuosa verso l’altra sponda del Pacifico, per fare entrare la Cina. Fu una
sorpresa il primo incontro con Marazziti a San Francisco. E uno shock. Sapevo
della pena di morte in America, certo, e da italiano ero istintivamente
contrario, senza avere mai approfondito il problema. Lui mi venne a trovare
pochi mesi dopo il mio trasloco, mi raccontò di quel grande raduno mondiale
contro la pena capitale. C’era suor Helen Prejean, la monaca militante che era
stata interpretata da Susan Saradon nel film Dead Man Walking (storia vera). Erano venuti a quel raduno alcuni
politici americani e qualche celebrity, impegnati per una causa umanitaria non
molto popolare negli Stati Unii. Marazziti mi raccontò del supercarcere di San
Quentin, che si affaccia su un ramo della splendida baia di San Francisco, e
del suo braccio della morte. Perché la California – il più progressista degli
Stati Usa – vantava un terribile record di condanne alla pena capitale. Non necessariamente
eseguite. Ma che contribuivano a riempire quel braccio della morte. Il continuo
rinvio, l’uccisione annunciata senza una data certa, quel messaggio terribile
che dice a un essere umano “ti farò fuori ma non ho ancora deciso quando”, si
presta all’obiezione di anti-costituzionalità. Nella Costituzione degli Stati
Uniti è vietato ogni castigo “crudele e inusuale”. Grazie a Marazziti e a quel
raduno di 17 anni fa, cominciai a esplorare le contraddizioni del mio Stato
adottivo, San Francisco era stata la culla della Beat Generation, dei poeti
maledetti degli anni ’50, dei cantori dell’India eterna e delle droghe. La
vicina BerKeley aveva partorito il Free Speech Movement, la rivolta giovanile
antesignana del maggio del ’68. Poi c’era stata la Summer of Love, i figli dei
fiori. Le battaglie per i diritti dei gay. L’ambientalismo. Internet era nato
in versione libertaria e anti-capitalista, nuova macchina delle disuguaglianze.
La stessa California però aveva generato Nixon e Reagan, i presidenti che più
ispirano Trump. Si era data leggi penali terrificanti come la three strikes you are out, con
l’ergastolo automatico al terzo reato (non necessariamente violento). Oggi
Marazziti lo rivedo a New York, continua la sua battaglia in sede Onu. Non si è
mai lasciato scoraggiare. I sondaggi dicono che la pena di morte perde consensi
tra gli americani. Gli Stati Usa che la applicano sono in diminuzione. Per chi
voglia saperne di più, e magari entrare in corrispondenza con alcuni “ospiti”
dei bracci della morte, il suo diario è Life,
Da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte (ed. I libri di
Sant’Egidio).
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24
giugno 2017 -
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