Sono Rimasto Molto colpito dai suoi scritti sulla tecnica perché è arrivata dove mai mi
sarei immaginato di trovarla: Nel lavoro sociale, luogo per eccellenza delle
relazioni. Invece, dopo una decina d’anni di volontariato in un centro di
accoglienza alla periferia di Torino, me ne sono allontanato per la
disumanizzazione del sociale. Con gli anni ho visto diventare il sociale un
settore produttivo come gli altri, dove prevalgono la standardizzazione,
l’efficienza, le regole. L’indicazione da parte delle istituzioni e dei centri
di formazione è essere professionali, che significa distacco, non farsi
coinvolgere, negare il volto e la voce dell’altro. Se un uomo di 72 anni bussa
alla porta del centro di accoglienza alle dieci di sera non devi aprire, devi
negare l’umano che è in te. Se Luigi arriva dopo essere stato operato di cancro
insieme al suo unico e fattivo sostegno, la moglie Angela, devi sbatterla fuori
perché si ospitano solo gli uomini. Il burn out nasce dall’essere parte di un
sistema, direi un franchising, dove credi di essere un agente di cambiamento e
invece contribuisci a lasciare le cose intatte. Si è in una sorta di catena di
montaggio dove gli “altri” sono oggetti: tanto raccontati, quanto poco
ascoltati. Se l’indicazione è chiudere alle 8, così devi fare anche se Paolo ha
la febbre a 40 e fuori nevica. Non ti resta che essere un volenteroso
esecutore. Ma si può restare nello stesso posto sfuggendo ai codici? Fabrizio Floris fabrizio.floris@unito.it
La razionalità Tecnica,
il modo cioè di
organizzare gli apparati secondo i criteri di efficienza e produttività che
sono tipici di quella razionalità, non lascia immune neanche le opere
umanitarie, semplicemente perché nell’età della tecnica l’umanesimo è finito.
Permane solo come residuato storico in alcuni settori di qualche struttura
religiosa, ma anche queste strutture vanno scomparendo per mancanza di
vocazioni, e presto anche loro chiuderanno i loro portoni un tempo accoglienti.
Le ragioni sono dovute al fatto che le società sono diventate complesse, e le
persone non si conoscono più, come una volta, per nome, ma unicamente per la
funzione che svolgono nei loro sistemi professionali. E siccome l’apparato
lavorativo è divenuto anche l’unico luogo di socializzazione, è ovvio che la
logica razionale che preside l’organizzazione finisce col regolare anche i
rapporti tra gli uomini. Se si incontrano seduti a un tavolo è per una
colazione di lavoro, se sono invitati a una festa vanno per conoscere e farsi
conoscere, coltivano le amicizie per i vantaggi che ne possono derivare e non è
escluso che anche gli amori siano privi di calcolo. Il pensiero calcolante (Denken als rechnen, come lo chiamava
Heidegger) è diventato l’unico in circolazione, e ha messo fuori gioco quel
pensiero capace di ringraziare e offrire gratuitamente (Denken als danken). E forse questo è l’argomento più persuasivo per
far capire (a quanti ancora ritengono che la tecnica, sia un mezzo nelle mani
dell’uomo, dal cui discernimento dipende il suo buon o cattivo impiego) che la
tecnica è diventata non solo il nostro ambiente, ma la sua razionalità è
subentrata nel nostro modo di regolare i rapporti, dove a convocarci non sono
più i nostri nomi, ma solo le nostre funzioni. Persino la nostra psiche ospita
un inconscio tecnologico, che sfugge all’interpretazione psicoanalitica
promossa da quella lettura a sfondo umanistico che aveva i suoi referenti nello
scenario familiare dove decisivi erano mamma e papà. (..). In questo scenario,
dove nel rapporto tra uomo e macchina (e macchine sono anche gli apparati a cui
apparteniamo) la guida è già da tempo passata alla macchina, che ne è
dell’uomo, della sua aspirazione alla felicità, alla sua disponibilità ad
accogliere il dolore, della sua capacità di percepire la bellezza di quel che
resta di una natura non ancora ridotta completamente a materia prima? Che ne è
del Discorso della Montagna dove si parla di beatitudini che nascono
dall’incontro tra gli uomini, dopo 2000 anni che non si predica più quel
Vangelo? Capisco la sua scelta, caro Fabrizio, e non so darle neppure
un’indicazione su dove ancora sia possibile trovare qualche traccia dell’umano.
Anche se Nietzsche ci invita a non disperare, là dove scrive che “l’uomo è un
animale non ancora stabilizzato”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 3 giugno
2017 -
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