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domenica 11 giugno 2017

Lo Sapevate Che: Ormai anche il lavoro a impatto sociale obbedisce a regole di produttività...



Sono Rimasto Molto colpito dai suoi scritti sulla tecnica perché è arrivata dove mai mi sarei immaginato di trovarla: Nel lavoro sociale, luogo per eccellenza delle relazioni. Invece, dopo una decina d’anni di volontariato in un centro di accoglienza alla periferia di Torino, me ne sono allontanato per la disumanizzazione del sociale. Con gli anni ho visto diventare il sociale un settore produttivo come gli altri, dove prevalgono la standardizzazione, l’efficienza, le regole. L’indicazione da parte delle istituzioni e dei centri di formazione è essere professionali, che significa distacco, non farsi coinvolgere, negare il volto e la voce dell’altro. Se un uomo di 72 anni bussa alla porta del centro di accoglienza alle dieci di sera non devi aprire, devi negare l’umano che è in te. Se Luigi arriva dopo essere stato operato di cancro insieme al suo unico e fattivo sostegno, la moglie Angela, devi sbatterla fuori perché si ospitano solo gli uomini. Il burn out nasce dall’essere parte di un sistema, direi un franchising, dove credi di essere un agente di cambiamento e invece contribuisci a lasciare le cose intatte. Si è in una sorta di catena di montaggio dove gli “altri” sono oggetti: tanto raccontati, quanto poco ascoltati. Se l’indicazione è chiudere alle 8, così devi fare anche se Paolo ha la febbre a 40 e fuori nevica. Non ti resta che essere un volenteroso esecutore. Ma si può restare nello stesso posto sfuggendo ai codici?   Fabrizio Floris   fabrizio.floris@unito.it
La razionalità Tecnica, il modo cioè di organizzare gli apparati secondo i criteri di efficienza e produttività che sono tipici di quella razionalità, non lascia immune neanche le opere umanitarie, semplicemente perché nell’età della tecnica l’umanesimo è finito. Permane solo come residuato storico in alcuni settori di qualche struttura religiosa, ma anche queste strutture vanno scomparendo per mancanza di vocazioni, e presto anche loro chiuderanno i loro portoni un tempo accoglienti. Le ragioni sono dovute al fatto che le società sono diventate complesse, e le persone non si conoscono più, come una volta, per nome, ma unicamente per la funzione che svolgono nei loro sistemi professionali. E siccome l’apparato lavorativo è divenuto anche l’unico luogo di socializzazione, è ovvio che la logica razionale che preside l’organizzazione finisce col regolare anche i rapporti tra gli uomini. Se si incontrano seduti a un tavolo è per una colazione di lavoro, se sono invitati a una festa vanno per conoscere e farsi conoscere, coltivano le amicizie per i vantaggi che ne possono derivare e non è escluso che anche gli amori siano privi di calcolo. Il pensiero calcolante (Denken als rechnen, come lo chiamava Heidegger) è diventato l’unico in circolazione, e ha messo fuori gioco quel pensiero capace di ringraziare e offrire gratuitamente (Denken als danken). E forse questo è l’argomento più persuasivo per far capire (a quanti ancora ritengono che la tecnica, sia un mezzo nelle mani dell’uomo, dal cui discernimento dipende il suo buon o cattivo impiego) che la tecnica è diventata non solo il nostro ambiente, ma la sua razionalità è subentrata nel nostro modo di regolare i rapporti, dove a convocarci non sono più i nostri nomi, ma solo le nostre funzioni. Persino la nostra psiche ospita un inconscio tecnologico, che sfugge all’interpretazione psicoanalitica promossa da quella lettura a sfondo umanistico che aveva i suoi referenti nello scenario familiare dove decisivi erano mamma e papà. (..). In questo scenario, dove nel rapporto tra uomo e macchina (e macchine sono anche gli apparati a cui apparteniamo) la guida è già da tempo passata alla macchina, che ne è dell’uomo, della sua aspirazione alla felicità, alla sua disponibilità ad accogliere il dolore, della sua capacità di percepire la bellezza di quel che resta di una natura non ancora ridotta completamente a materia prima? Che ne è del Discorso della Montagna dove si parla di beatitudini che nascono dall’incontro tra gli uomini, dopo 2000 anni che non si predica più quel Vangelo? Capisco la sua scelta, caro Fabrizio, e non so darle neppure un’indicazione su dove ancora sia possibile trovare qualche traccia dell’umano. Anche se Nietzsche ci invita a non disperare, là dove scrive che “l’uomo è un animale non ancora stabilizzato”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 3 giugno 2017 -

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