Mio Figlio Maggiore ha 14 anni. Da fuori sembra uno solo,
seppur ingombrante con quelle spalle larghe, quei piedi lunghi, quell’incedere
spavaldo e scomposto. Invece lì. Dentro quel singolo adolescente, ce ne sono
almeno altri 100: bambino, uomo, cavaliere selvaggio, pigro, iperattivo,
incosciente, saggio, geniale, fessacchiotto e molti altri. Succede così a
tutti, pare. Allora cerco di godermi il terrificante e sublime spettacolo della
sua frenetica metamorfosi. Si impara moltissimo da un figlio adolescente.
Perché richiede accoglienza ma anche distanza e attenzione e funambolismo e
tolleranza e fermezza e pazienza e tenerezza e nervi saldi. L’adolescenza del
figlio è una corsa in ottovolante accanto a un tizio che vorrebbe ora gettarsi
di sotto, ora buttarti di sotto, ora tenerti stretta. Eppure, ogni tanto, tra
uno sguardo in cagnesco, un moto di insofferenza e una dichiarazione
indipendentista, ci sono sprazzi luminosi e occasioni preziose. Forse il
talento di un genitore sta proprio nella capacità di infilarsi negli spiragli
lasciati aperti, nella rapidità di reazione al cospetto di una guardia che si
abbassa. Perché è lì, nelle smagliature della loro corazza, che si può tessere
la trama del loro futuro. L’altra sera ero a letto a leggere e lui, con le
movenze di Arthur Fonzarelli, è entrato in camera e si è seduto accanto a me in
silenzio. Eccola quella fessura di luce, l’intercapedine in cui incontrarsi.
Eccolo quel momento delicatissimo in cui una parola giusta può aprire varchi,
un gesto sbagliato può erigere muraglie. Così, per sapienza o vigliaccheria, ho
taciuto. Dal suo telefonino è partita una canzone del 1970. Insolita, bizzarra,
quasi stridente rispetto al rap e all’heavy metal a cui mi ha abituata: Your Song di Elton John. “Come si
conquista una ragazza, mamma?”, ha domandato. Ho deglutito, conscia
dell’enormità dell’interrogativo. “In che senso?”. “Se ti vuoi mettere con una
tipa… Cosa devi fare? Cosa devi dire?”. In un fugace, agghiacciante momento di
lucidità ho sentito l’insostenibile peso della responsabilità di dare una
forma, che domani potrebbe diventare sostanza, alla seduzione. Ho percepito la
densità del momento. “Io ho il dovere di crescere un uomo per bene che dica le
parole giuste, scelga i gesti con cura, usi la tenerezza sia armato di rispetto
e di attenzione, sappia sostenere uno sguardo ma anche abbassarlo. Io devo
insegnargli tutto questo adesso. Perché chi lo sa quando mi ricapita una
smagliatura così”, mi sono detta mentre Elton ripeteva “I hope you dont’t mind”, spero che non ti dispiaccia. E poi tutta
questa consapevolezza si è frantumata al cospetto della mia inopportuna,
solidale e lieve, divertita e regredita, provocatoria e “capa fresca”, come mi
chiamava il mio papà. “Pensi di piacerle, almeno un po'?”. “Sì, credo di sì”.
“Allora baciala!”, ho esclamato con l’entusiasmo di una Vispa Teresa. “Eh?” ha
mugugnato lui perplesso. “Sì! Lascia stare le dichiarazioni che, a meno che tu
non sia Petrarca (e possiedo alcune evidenze empiriche che lo escludono),
rischiano di essere patetiche o ridicole o banali. Avvicinati, con delicatezza,
e baciala! Se non gradirà te ne accorgerai subito e allora dovrai arretrare
prontamente, chiedere scusa e metterci una pietra sopra”. “Sei sicura che funzioni
così, mamma?”. “Non ci sono sicurezze qui. E comunque ricordati che con le
ragazze devi essere rispettoso e attento e…”. “Ok, ok, mamma. Queste cose già
le so. Ciao”. Elton John ha smesso di cantare, l’intercapedine si è serrata,
lui si è alzato e ha lasciato la mia stanza scuotendo la testa.
Claudia de Lillo - Opinioni – Donna di La Repubblica 17
giugno 2017-
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