Contro Quel Nichilismo “attivo” che lei ravvisava ed elogiava nella lettera di quel giovane
studente dell’Accademia torinese di Belle Arti, pubblicato al numero 1069 di D, io mi sento invece intrappolata in un
nichilismo “passivo”, che mi consuma nel fisico e nella mente, e spegne le mie
energie in un’apatia mortale, in cui si annullano le emozioni e i sentimenti,
non più riconosciuti da una mente esausta che ha smesso di vegliare sul sonno
di un cuore che langue. L’ospite inquietante si è insediato nella mia anima la
quale, sedotta mentre tentava di studiarne le movenze, si è intrattenuta troppo
a lungo con lui, al punto da arrivare a credere ai suoi discorsi di morte,
senza riuscire più a pensare altrimenti. Ha perso così la capacità di
immaginare possibili nuovi incontri con altri ospiti portatori di altri
discorsi, per accogliere i quali occorre riprendere possesso della propria
casa, ripulirla, riordinarla, nella preparazione di quella festa della domenica,
anticipata e già celebrata nell’euforia di quel sabato che è, per la vita, la
giovinezza. Devo davvero accettare, come unica soluzione possibile per superare
questa condizione di atonia, un neurofarmaco, capace di spezzare il sonno
ipnotico a cui il mio ospite mi ha soggiogato, o forse indurmi un sonno ancor
più profondo, tale da oscura quelle immagini oniriche che hanno sedotto la mia
mente, perché forse vi aveva avvertito una più arcana e sconvolgente verità,
che ora deve essere obliata per poter continuare a vivere? Svanisce così anche
la paura stessa della morte, che la mia alimentazione equilibrata e deleteria
rende sempre più prossima, concretamente percepibile nella sporgenza delle
ossa, che, come i nodi di senso attorno a cui si articola una trama, tracciano
e così rendono leggibile la storia di una vita altrimenti inconsistente,
smarrita nell’assurdità delle parole che vorrebbero raccontarla, ma non trovano
l’interlocutore capace di intenderle. A questa morte mi abbandono passivamente,
incapace di resistere a quel desiderio di niente che promana dal nulla in cui
il mio Io si è frantumato, disgregato, dissipato, non a seguito di un evento
traumatico, di, di una sconfitta, di una delusione, di un fallimento
esistenziale, ma nella quiete mortale dell’impercettibile corrompersi, come di
un cadavere, dell’immagine narcisistica che lo sosteneva, e di cui gli eventi
della vita hanno smascherato la natura fantasmatica.
Questa È Una di quelle lettere da cui non ci si
riesce a staccare. E anche se si scorre sulle altre lettere giunte in
settimana, poi si finisce col tornare su questa che ha reso insignificanti
tutte le domande contenute nelle altre. Una via d’uscita potrebbe essere il fatto
che questa lettera da sola occuperebbe quattro pagine della rivista. E siccome
questa possibilità non si dà, meglio sarebbe lasciar perdere. Ma non ce l’ho
fatta, perché non ho mai trovato in nessun testo di psicologia (con la sola
eccezione dei libri di Eugenio Borgna) una descrizione così lucida del
sentimento che accompagna radicale insignificanza dell’esistenza da cui tutti
fuggiamo, occupandoci di qualsiasi cosa (lavoro, famiglia, carriera, progetti,
obiettivi, persino sogni e amori). E tutto questo senza alcun compiacimento
letterario, e senza alcun desiderio di suscitare pietà nel lettore, seguendo
passo passo quel consumarsi fino ad esaurirsi del senso (della vita), reso
espressivo e letterale dal corpo che più non si nutre, non per sfidare la morte,
ma perché, anche nel caso del cibo, per assumerlo non basta la fame, occorre
anche la voglia di vivere. Chi scrive è una ragazza di vent’anni, quindi
all’alba della vita. La sua scrittura, non si può dedurre da quel frammento che
ho riportato, è di una bellezza, una pregnanza, un’incidenza e un’efficacia
difficili da reperire in ragazze della sua età, per non parlare degli adulti.
Non si tratta di virtù letterarie, ma di aver esperito fino in fondo e fin dove
il dolore, l’ignavia, l’accidia, la noia, la demotivazione le hanno consentito
di sperimentare che la vita, a guardar bene, non offre ragioni sufficienti per
essere vissuta, se non mascherata fa formidabili inganni scambiati per cose
serie. Per noi lettori, frequentare qualche riga di questa lettera non è un
male. Serve a dare la giusta misura alla nostra esistenza che ci affanna e
supervaluta, come se si trattasse di vita o di morte, gli obiettivi che
ciascuno di noi si prefigge e insegue. Per costoro vale il monito che traspare
dalla lettera di Cecilia che non si interroga, come fanno tutti, sul senso
della sofferenza, bensì – e questa è un’enorme differenza, ben evidenziata da Günther Anders – sul senso dello stesso esistere,
che non appare privo di senso perché è tormentato dalla sofferenza, ma al
contrario appare insopportabile perché è privo di senso.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 17 febbraio 2018 -
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