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domenica 4 marzo 2018

Lo Sapevate Che: Se il tempo di chi abbiamo amato non è più il nostro...


Di Recente Sono stata qualche giorno a Bari dai miei suoceri. La domenica pomeriggio in quel limbo di tregua e oblio tra la fine del pranzo e la ripresa della vita, qualcuno sonnecchiava sul divano, altri fissavano sguardi vitrei su una delle pellicole degli anni’40 che mio suocero ama e tenta, con alterni successi, di condividere con i nipoti. In preda all’inquietudine nevrotica tipicamente milanese, ho abbandonato il torpore familiare e sono andata in cucina a preparare un caffè. E lì, su una mensola in alto c’era lui, bianco e rosso, in tutto il suo fulgore vintage: il dosa caffè. L’avevo visto l’ultima volta negli anni ’80 a casa di mia nonna. Lei lo teneva nella credenza bianca, insieme alle tazzine infrangibili e alla saccarina. Ricordo, in quella donna solitamente indifferente a tutto ciò che riguardava gli oggetti domestici, un entusiasmo commosso al cospetto di quell’oggetto “così intelligente e comodo” che permetteva a lei, parsimoniosa e maldestra nelle faccende della quotidianità, di non sprecare nemmeno un granello di caffè. Ho allungato un braccio e mi sono rigirata quel cilindro tra le mani. L’ho annusato, ritrovando l’odore di una credenza che non c’è più. Ho verificato quello stesso pomeriggio che i dosa-caffè sono ancora in commercio, ma oggi li fanno in acciaio e automatici, diversi da quello bianco e rosso della mia memoria e dei miei suoceri. Non sono mai stata una nostalgica, non ho molti rimpianto, e quei pochi li rimuovo o li reprimo. Credo elle leopardiane “magnifiche sorti e progressive” dell’umana gente”, e sono convinta che il futuro sia foriero di meraviglie più che di brutture. Tuttavia siamo fatti di presente ma soprattutto di passato, e della memoria di chi lo ha abitato. La perdita di chi amiamo rende prezioso il tempo, i luoghi e anche le cose condivise. E ciò che è stato s’ illumina di una luce nuova, essenziale e fragile che spetta a noi mantenere viva. Mia nonna usava il telefono con la rotella, una rubrica di nomi e numeri vergati in bella calligrafia con la stilografica, la boccetta di inchiostro, la carta carbone, la naftalina che saturava l’aria dentro gli armadi, la pelliccia di astrakan e il cappello a turbante, la lacca. Diceva “marron” invece di marrone e “inquietata” al posto di arrabbiata (“sono i cani ad avere la rabbia, non le persone”, ripeteva correggendomi). Mi chiamava “stellina” e a casa indossava la “liseuse”. Le sue tracce sono impresse in una fotografia che sta sbiadendo, in un mondo a cui vorrei aggrapparmi, in barba alle magnifiche sorti. Mio padre se n’è andato quasi sei anni fa, uno spazio breve in cui all’apparenza poco cambia. Mi illudo che il mio tempo sia ancora il suo. Eppure talvolta, di fronte a un vecchio programma tv., a un film, al modello furi produzione di un’auto, mi coglie la terrificante consapevolezza dell’ineluttabilità della sua assenza. E annaspo nel tentativo di recuperare pezzetti del nostro convivere, frammenti delle nostre conversazioni, il rotolo del nostro immaginario Super 8. Il profumo di mio padre è un dopobarba che non fanno più, la sua colonna sonora contiene canzoni che cantano ormai in pochi. Frequento ogni mattina un luogo tappezzato di poster della tv che fu: le signorine buonasera. Corrado, Mike Bongiorno, Sandra Mondaini e Raimondo Vanello, Raffaella Carrà. Mai avrei accostato quei personaggi a mio padre, quando l’avevo accanto. Eppure ora mi struggo guardando il bianco e nero di quei volti, perché abitavano e incorniciavano la mia infanzia ma soprattutto il nostro tempo insieme. Mi fermo. Guardo avanti, mi volto indietro e mi tengo in equilibrio nel mezzo, camminando sospesa sul filo della mostra storia, cercando di non romperlo e di non cadere.
Claudio de Lillo – Donna di La Repubblica – 24 febbraio 2018 -

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