Di Recente Sono stata qualche giorno a Bari dai miei
suoceri. La domenica pomeriggio in quel limbo di tregua e oblio tra la fine del
pranzo e la ripresa della vita, qualcuno sonnecchiava sul divano, altri
fissavano sguardi vitrei su una delle pellicole degli anni’40 che mio suocero
ama e tenta, con alterni successi, di condividere con i nipoti. In preda
all’inquietudine nevrotica tipicamente milanese, ho abbandonato il torpore
familiare e sono andata in cucina a preparare un caffè. E lì, su una mensola in
alto c’era lui, bianco e rosso, in tutto il suo fulgore vintage: il dosa caffè.
L’avevo visto l’ultima volta negli anni ’80 a casa di mia nonna. Lei lo teneva
nella credenza bianca, insieme alle tazzine infrangibili e alla saccarina.
Ricordo, in quella donna solitamente indifferente a tutto ciò che riguardava
gli oggetti domestici, un entusiasmo commosso al cospetto di quell’oggetto
“così intelligente e comodo” che permetteva a lei, parsimoniosa e maldestra
nelle faccende della quotidianità, di non sprecare nemmeno un granello di
caffè. Ho allungato un braccio e mi sono rigirata quel cilindro tra le mani. L’ho
annusato, ritrovando l’odore di una credenza che non c’è più. Ho verificato
quello stesso pomeriggio che i dosa-caffè sono ancora in commercio, ma oggi li
fanno in acciaio e automatici, diversi da quello bianco e rosso della mia
memoria e dei miei suoceri. Non sono mai stata una nostalgica, non ho molti
rimpianto, e quei pochi li rimuovo o li reprimo. Credo elle leopardiane
“magnifiche sorti e progressive” dell’umana gente”, e sono convinta che il
futuro sia foriero di meraviglie più che di brutture. Tuttavia siamo fatti di
presente ma soprattutto di passato, e della memoria di chi lo ha abitato. La perdita
di chi amiamo rende prezioso il tempo, i luoghi e anche le cose condivise. E
ciò che è stato s’ illumina di una luce nuova, essenziale e fragile che spetta
a noi mantenere viva. Mia nonna usava il telefono con la rotella, una rubrica
di nomi e numeri vergati in bella calligrafia con la stilografica, la boccetta
di inchiostro, la carta carbone, la naftalina che saturava l’aria dentro gli
armadi, la pelliccia di astrakan e il cappello a turbante, la lacca. Diceva
“marron” invece di marrone e “inquietata” al posto di arrabbiata (“sono i cani
ad avere la rabbia, non le persone”, ripeteva correggendomi). Mi chiamava
“stellina” e a casa indossava la “liseuse”. Le sue tracce sono impresse in una
fotografia che sta sbiadendo, in un mondo a cui vorrei aggrapparmi, in barba
alle magnifiche sorti. Mio padre se n’è andato quasi sei anni fa, uno spazio
breve in cui all’apparenza poco cambia. Mi illudo che il mio tempo sia ancora
il suo. Eppure talvolta, di fronte a un vecchio programma tv., a un film, al
modello furi produzione di un’auto, mi coglie la terrificante consapevolezza
dell’ineluttabilità della sua assenza. E annaspo nel tentativo di recuperare
pezzetti del nostro convivere, frammenti delle nostre conversazioni, il rotolo
del nostro immaginario Super 8. Il profumo di mio padre è un dopobarba che non
fanno più, la sua colonna sonora contiene canzoni che cantano ormai in pochi.
Frequento ogni mattina un luogo tappezzato di poster della tv che fu: le
signorine buonasera. Corrado, Mike Bongiorno, Sandra Mondaini e Raimondo
Vanello, Raffaella Carrà. Mai avrei accostato quei personaggi a mio padre,
quando l’avevo accanto. Eppure ora mi struggo guardando il bianco e nero di
quei volti, perché abitavano e incorniciavano la mia infanzia ma soprattutto il
nostro tempo insieme. Mi fermo. Guardo avanti, mi volto indietro e mi tengo in
equilibrio nel mezzo, camminando sospesa sul filo della mostra storia, cercando
di non romperlo e di non cadere.
Claudio de Lillo – Donna di La Repubblica – 24 febbraio 2018 -
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