Renée. Josephine. Marylou. Come si chiama veramente? Non ha molta importanza.
Perché suo marito ogni mattinala guarda e sceglie un nome per lei, quello che
le somiglia di più. In cui possa stare comoda quel giorno. Una volta
ribattezzata, felice, si guarda allo specchio e saluta la nuova, effimera sé.
Lei dà del tu alle stelle, dichiara lui che la ama di un amore, dissennato e
adorante. Lei posa il suo sguardo lieve e sognante sul mondo e preferisce le
menzogne alle storie tristi. Insieme amano ballare per giorni e notti intere,
sulle note di Mr. Bojangles una
canzone struggente scritta nel 1968 su un uomo che, vestito di stracci e
malinconia, si ostina a danzare anche dentro la cella di una prigione, in ricordo
di quello che è stato. La voce narrante di questo libro francese bizzarro e
surreale –Aspettando Bojangles,
dell’esordiente Olivier Bourdeaut – è un ragazzino, il figlio della coppia, che
contempla incantato il grandioso spettacolo dell’amour fou. Cresciuta con due
genitori divorziati, non li ho mai considerati un’unità anche se talvolta l’ho
fortemente desiderato. Ho conosciuto la solitudine e lo smarrimento della
disgregazione familiare e mi ci sono adattata presto, ritenendola normalità,
come usano fare i bambini. Forse per questo, più delle stramberie familiari,
dei personaggi strampalati e dell’improbabile uccello dal collo lungo e le
piume bianche che passeggia elegante dentro casa, a colpirmi sono stati l’amore
assoluto e tetragono di un uomo per una donna dai mille nomi e il destino di un
bambino condannato ad accontentarsi delle briciole di un sentimento così
escludente nella sua protervia. Quanta sapienza, quanta fortuna, quanto egoismo
c’è in una passione che bruzia di una fiamma inestinguibile e divorante, così
luminosa da oscurare tutto il resto? Quanto spazio, in un amore autarchico,
adolescente, resta a un figlio, il più scomodo dei terzi incomodi?
Mi è capitato talvolta di incontrare coppie di lungo
corso, uomini e donne persi tutta la vita nei rispettivi sguardi. C’è un
signore napoletano che ogni tano condivide con me, via posta elettronica, le
poesie che dedica a Francesca, sua moglie e musa da 37 anni. Scrive parole
piene di riconoscenza e di stupore, inebriato da un sentimento estraneo alla
consunzione. Come il ragazzino del romanzo osservo rapita, talvolta invidiosa,
la potenza di ardori che hanno mantenuto la perfezione della loro inziale forma
sferica, impenetrabile e impermeabile. “La nostra vita si divide in prima e
dopo i figli”, dice mio marito con la rassegnazione del martire. E s che parla
di noi due, del nostro amore nato a vent’anni, cresciuto, evolutosi e
involutosi, troppo inquieto, vorace e prolifico per ardere in binaria
solitudine. La coppia ha fatto spazio ai figli che a suon di affetto, gomitate,
spintoni si sono accomodati in quel romantico mondo sferico colorandolo e
riempiendolo di bitorzoli e spigoli. Negli anni ci siamo fatti triangoli,
pentagoni, esagoni e sghembi poligoni. Abbiamo rinunciato a darci nomi nuovi ogni
mattina, a ballare avvinghiati giorno e notte accompagnati da Mr Bojangles e da Nina Simone. Da
morbidi e accoglienti talvolta c facciamo ruvidi e ispidi e ci scordiamo di
perderci nei rispettivi sguardi. Poi, spaventati ci fermiamo, allunghiamo una mano
e, tastando nel buio, ci riconosciamo sollevati. Dondoliamo su un filo teso tra
i nostri figli, i nostri affanni, le cento finestre che abbiamo spalancato.
Perché conosciamo soltanto questo modo instabile e sbilenco di essere coppia e
anche genitori. E quando mi prende lo sconforto, penso a Bojangles che saltava
così in alto e poi atterrava leggero.
Claudia de Lillo – Opinione – Donna di La Repubblica – 17
marzo 2018
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