Il 14 Gennaio scorso Ahmadreza Djalali ha compiuto 46
anni. È il secondo compleanno che trascorre lontano dai suoi due figli, Amitis
e Ariou, e dalla moglie vida. Ahmad è un ricercatore iraniano esperto di medicina
dei disastri e assistenza umanitaria, residente di Svezia, da anni
collaboratore della Vrije Universiteit di Bruxelles dell’Università del
Piemonte Orientale. Da quasi due anni si trova nel carcere di Evin, a Teheran,
dove era stato invitato per tenere alcuni seminari. Accusato di spionaggio, ad
Ahmad non è mai stato garantito il diritto a un giusto pro stando cesso. Lo
scorso ottobre il Tribunale rivoluzionario lo ha condannato a morte. La pena è
stata sospesa, ma poi, stando alle ultime notizie, riconfermata. Per la sua
liberazione sono stati lanciati appelli dall’Italia, dalla Svezia e dal Belgio,
e si sono mobilitati premi Nobel e diverse associazioni tra cui Amnesty
International e la Federazione Italiana per i Diritti dell’Uomo. Ma la sua sorte
è ancora nelle mani di un regime pronto a condannare ciò che Ahmad, in quanto
ricercatore, rappresenta: la libertà di studio e di pensiero e la
collaborazione internazionale. In tutto il mondo ci sono almeno 82 accademici
imprigionati: 55 sarebbero invece gli studiosi uccisi, scomparsi o che hanno
subito altri tipi di violenze e 45 quelli perseguitati. I numeri arrivano dal
report di Scholars at risk, un network internazionale che difende la libertà di
ricerca e promuove iniziative per proteggere gli studiosi minacciati, oppressi
e a rischio di morte. Il report, che riferisce i casi registrati dal primo
settembre 2016 a fine agosto 2017, parla di 257 casi di attacchi verificati
contro la libertà accademica in 35 paesi. Si tratta per lo più di zone di crisi
e di guerra o dove si sono manifestate correnti estremiste, come la Siria, il
Pakistan, la Turchia, il Venezuela. In quei territori la libertà di istruzione,
di ricerca e di pensiero, per le quali nel nostro “più fortunato” Occidente si
è a lungo lottato, sono percepite come un pericolo dal regime o dalla dittatura
di turno e, per questo, limitate o ostacolate. Non m stancherò di ripetere che
un ricercatore recluso deve essere vissuto al pari di un’aggressione a un corpo
diplomatico o a un soldato in servizio di peacekeeping. Ogni attacco a chi è
impegnato nella ricerca è un’aggressione a un “casco blu” al servizio della
conoscenza. Dopo la notizia della condanna a morte di Ahmad, in Senato abbiamo
presentato un’interpellanza al Governo sottoscritta da 133 senatori, la stessa
è stata proposta da 90 deputati. Ma ci sono state anche iniziative personali
all’interno dell’Accademia. La professoressa Nicoletta Filifhedda
dell’Università del Piemonte Orientale, per esempio, ha declinato l’invito
dell’Istituto Royan di Teheran di candidare un suo studio per un premio
scientifico promosso dall’Ira. Anche a me lo scorso anno è capitato di
declinare l’invito a un evento scientifico in Iran. Ritengo sia nostro dovere
occuparci con azioni concrete di storie di diritti negati come questa, in
quanto sono solo apparentemente lontane dalle nostre vite. La memoria,
inevitabilmente, ci ricorda anche la tragica sorte del giovane Giulio Regeni.
Non potremo dire di aver definitivamente conquistato un diritto finché questo
non sarà garantito a tutti. Di recente il governo svedese ha conferito ad Ahmad
la cittadinanza. Una decisione che ha contribuito a mantenere alta l’attenzione
a livello internazionale sul caso. Mi auguro non rimanga l’unica iniziativa in
grado di comunicare all’Iran che l’Europa non ha intenzione di abbandonare
Ahmad. Amitis, Ariou e Vida lo aspettano a casa.
Elena Cattaneo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 marzo
2018
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