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giovedì 29 marzo 2018

Lo Sapevate Che: I "Caschi blu" al servizio della conoscenza...


Il 14 Gennaio scorso Ahmadreza Djalali ha compiuto 46 anni. È il secondo compleanno che trascorre lontano dai suoi due figli, Amitis e Ariou, e dalla moglie vida. Ahmad è un ricercatore iraniano esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria, residente di Svezia, da anni collaboratore della Vrije Universiteit di Bruxelles dell’Università del Piemonte Orientale. Da quasi due anni si trova nel carcere di Evin, a Teheran, dove era stato invitato per tenere alcuni seminari. Accusato di spionaggio, ad Ahmad non è mai stato garantito il diritto a un giusto pro stando cesso. Lo scorso ottobre il Tribunale rivoluzionario lo ha condannato a morte. La pena è stata sospesa, ma poi, stando alle ultime notizie, riconfermata. Per la sua liberazione sono stati lanciati appelli dall’Italia, dalla Svezia e dal Belgio, e si sono mobilitati premi Nobel e diverse associazioni tra cui Amnesty International e la Federazione Italiana per i Diritti dell’Uomo. Ma la sua sorte è ancora nelle mani di un regime pronto a condannare ciò che Ahmad, in quanto ricercatore, rappresenta: la libertà di studio e di pensiero e la collaborazione internazionale. In tutto il mondo ci sono almeno 82 accademici imprigionati: 55 sarebbero invece gli studiosi uccisi, scomparsi o che hanno subito altri tipi di violenze e 45 quelli perseguitati. I numeri arrivano dal report di Scholars at risk, un network internazionale che difende la libertà di ricerca e promuove iniziative per proteggere gli studiosi minacciati, oppressi e a rischio di morte. Il report, che riferisce i casi registrati dal primo settembre 2016 a fine agosto 2017, parla di 257 casi di attacchi verificati contro la libertà accademica in 35 paesi. Si tratta per lo più di zone di crisi e di guerra o dove si sono manifestate correnti estremiste, come la Siria, il Pakistan, la Turchia, il Venezuela. In quei territori la libertà di istruzione, di ricerca e di pensiero, per le quali nel nostro “più fortunato” Occidente si è a lungo lottato, sono percepite come un pericolo dal regime o dalla dittatura di turno e, per questo, limitate o ostacolate. Non m stancherò di ripetere che un ricercatore recluso deve essere vissuto al pari di un’aggressione a un corpo diplomatico o a un soldato in servizio di peacekeeping. Ogni attacco a chi è impegnato nella ricerca è un’aggressione a un “casco blu” al servizio della conoscenza. Dopo la notizia della condanna a morte di Ahmad, in Senato abbiamo presentato un’interpellanza al Governo sottoscritta da 133 senatori, la stessa è stata proposta da 90 deputati. Ma ci sono state anche iniziative personali all’interno dell’Accademia. La professoressa Nicoletta Filifhedda dell’Università del Piemonte Orientale, per esempio, ha declinato l’invito dell’Istituto Royan di Teheran di candidare un suo studio per un premio scientifico promosso dall’Ira. Anche a me lo scorso anno è capitato di declinare l’invito a un evento scientifico in Iran. Ritengo sia nostro dovere occuparci con azioni concrete di storie di diritti negati come questa, in quanto sono solo apparentemente lontane dalle nostre vite. La memoria, inevitabilmente, ci ricorda anche la tragica sorte del giovane Giulio Regeni. Non potremo dire di aver definitivamente conquistato un diritto finché questo non sarà garantito a tutti. Di recente il governo svedese ha conferito ad Ahmad la cittadinanza. Una decisione che ha contribuito a mantenere alta l’attenzione a livello internazionale sul caso. Mi auguro non rimanga l’unica iniziativa in grado di comunicare all’Iran che l’Europa non ha intenzione di abbandonare Ahmad. Amitis, Ariou e Vida lo aspettano a casa.
Elena Cattaneo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 marzo 2018

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