Sonia È Un Nome fittizio: non si scherza con
l’identità degli stranieri senza permesso di residenza, nell’America di Trump.
Anche se, nel suo caso, è qui da una vita. Brasiliana, 70 anni inoltrati, deve
avere avuto un passato “normale”, una storia più che rispettabile. Quando
Stefania, mia moglie, la incontrò per la prima volta alla stazione ferroviaria
rand Central di New York. Sonia aveva già alle spalle anni di vagabondaggio,
accattonaggio, mancanza di fissa dimora. Eppure parlava tre o quattro lingue –
qualche frase anche in italiano – con espressioni raffinate: sprazzi di un
passato in cui aveva avuto istruzione e lavoro. Un marito, anche. Poi la sua
vita aveva imboccato alcune direzioni sbagliate. Restare sola, senza lavoro, né
pensione, a quell’età, se in più hai uno status irregolare, non è facile da
nessuna parte. Negli Usa ancora meno. Tornare in Brasile forse sarebbe stato
meglio. Ma Sonia era ormai prigioniera della sindrome dello “zio d’America”: i
tuoi distanti familiari, nella tua terra d’origine danno per scontato che come
emigrata tu possa avere avuto successo. È troppo umiliante tornare a casa
avendo bisogno di aiuto. Nel mondo degli homeless newyorchesi Sonia si
distingueva per le bune maniere, e forse alla fine questo le ha portato
fortuna. In mezzo a tane disgrazie orribili – un’infezione stava degenerando in
cancrena. Le hanno amputato una gamba – si è imbattuta nei volontari della
Comunità di Sant’Egidio, con i quali Stefania lavora. Le hanno trovato
assistenza medica nonostante lo status irregolare. Dopo l’amputazione l’hanno
collocata in una casa di cura, Upstate New York (la zona settentrionale dello
Stato, lungo la valle dell’Hudson). Là Sonia è rinata. In confronto alla
stazione ferroviaria, quella casa di cura le sembra un hotel a cinque stelle.
Fraternizza con tutti. Medici, infermieri, pazienti l’hanno adattata come
un’ospite gradita, simpatica, piena di energia e vitalità. La riempiono di una
gioia ancora più visibile le visite settimanali che le fa Stefania, portandole
oltre al suo tempo e alla sua amicizia anche un piccolo regalo proibito: un
pacchetto di sigarette. Diamine, siamo nella nazione del proibizionismo, ma una
settantenne ex-homeless a cui hanno amputato una gamba avrà pure il diritto di
qualche sigaretta. La storia di Sonia è una di quelle che gratificano i
volontari di Sant’Egidio, compensando altre esperienze meno confortanti. Le
viscere di questa metropoli ospitano un mondo spietato, Tra gli Homeless a cui
portano pasti caldi in questo inverno polare d New York, c’è chi “ringrazia”
con insulti, sollevando il dito medio in un gestaccio osceno. I vestiti
regalati, a volte, invece di essere indossati per proteggersi dal gelo,
spariscono, rivenduti per comprare birra o droghe. È un ambiente dove dilagano
malattie mentali, alcolismo, tossicodipendenze, piccole e grandi violenze
quotidiane per sopravvivere. Il volontariato è una vocazione che richiede
pazienza infinita, forza d’animo e una certa professionalità. Occuparsi dei più
poveri non è affare da anime belle che si aspettano ringraziamenti e lieto
fine. Per una storia come quella di Sonia, ce ne sono 99 che rimangono bloccate
in un presente squallido e sordido. Non solo i volontari lavorano gratis, per
definizione, ma imparano a non aspettarsi neppure un sorriso in cambio del loro
aiuto e affetto. Chi vive nel sottosuolo della società ha troppe ragioni per
covare un risentimento infinito. Stefana ne ha ricavato uno sguardo nuovo verso
alcun mestieri ingrati: il poliziotto, l’infermiere dell’ambulanza. Anche loro,
non sempre sono gentili come vorremmo. Ma gli abbiamo delegato il compito di
lavorare a tempo pieno in quel mondo lì, ce il 99% di noialtri sfiora a
malapena, tenendosi a distanza.
Federico
Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 febbraio 2018 -
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