“Ah però”, dice lei sventolando sono il mio naso
due fogli A4. “Leggi qui!”, aggiunse puntando il dito sull’ultima riga
dell’ultima pagina. C’è un numero: 1.642,27. Le sorrido del sorriso
stropicciato dei naufraghi. Abbiamo trascorso gli ultimi due giorni in quella
stanza: lei, io e i nostri figli coetanei. Ci siamo ritrovate a condividere il
bagno, il sonno, un pianto lontano che squarcia la notte, il caffè della sua
macchinetta, l’intimità delle nostre paure e dei nostri spazzolini da denti.
Loro oggi tornano a casa. La lettera di dimissioni che hanno appena ricevuto
contiene tutte le informazioni, compreso il costo della degenza e
dell’intervento chirurgico a cui è stato sottoposto il ragazzino. Rimango sola
con mio figlio 11enne in quella stanza doppia dell’ospedale dei bambini e
improvvisamente mi viene in mente il padre di mio marito. Quando lo conobbi
avevo poco più di vent’anni ed ero ancora impigliata in quel sottile egoismo
protervo, proprio delle bestioline e degli adolescenti. Eppure di lui mi colpì
subito la generosità di sé, un tratto folgorante che sulla mia strada avevo
incontrato di rado, almeno in quella forma limpida. Mio suocero sapeva
ascoltare per ore chi ne aveva bisogno, accompagnava e andava a prendere i
figli a qualsiasi ora in luoghi remoti, tendeva la mano prima ancora che fosse
pronunciata una richiesta di aiuto. Era dotato (e lo è tuttora) di una solidità
accogliente che mi abbagliò al primo sguardo. Ma ciò che mi parve sublime
furono la naturalezza nel dare, la leggerezza nel dire “sì, certo. Arrivo. Non
c’è problema”, anche quando di problemi ce ne erano eccome, anche quando
l’aiuto costava fatica, anche quando era stanco o non aveva voglia. Quella
generosità signorile dava l’illusione che per lui la gentilezza fosse un
piacere e mai un fardello. Mio marito, pur con le ossessioni, le intemperanze e
le follie di cui nel padre non si trova traccia, ha ereditato questa cifra
nobile che da anni, con risultati alterni, cerco di imitare. Il mondo si divide
in chi presenta il conto e in chi dichiara: “Figurati! E’ stato un piacere”, e
si allontana sorridendo. Mi innamoro di questi ultimi e a loro vorrei
somigliare eppure talvolta conoscere il prezzo della fatica è il solo modo per
riuscire ad apprezzarla. Perché quel pomeriggio pensavo a mio suocero e alla
sua gentilezza lieve, mentre me ne stavo seduta accanto al letto 707 di un
ospedale milanese, a contemplare i capelli pazzi del mio bambino reduce da un
intervento d’urgenza di appendicectomia! Forse perché due sere prima ero
arrivata con lui in un pronto soccorso stracolmo e nonostante i pianti, il
vociare, il caos e l’aura apocalittica del luogo, siamo stati accolti con
cortesia, professionalità e cura. Forse perché il chirurgo ha detto: “Sono più tranquilla
se operiamo stanotte”, e mi ha spiegato tutti i perché e tutti i come. Forse
perché l’anestesista mi ha teso la mano e si è presentato con nome e cognome.
Forse perché l’infermiera si è scusata con mio figlio per non avergli trovato
subito la vena per il prelievo e poi gli ha fatto una carezza. Forse perché,
mentre aspettavo che finisse l’intervento, di notte, dalle stanze arrivava il
lamento di un bambino minuscolo, meno fortunato del mio, e le voci dei medici
che rassicuravano un padre in lacrime- Forse perché tutto questo ha un costo
altissimo, professionale ma anche umano, come i favori di mio suocero, ed è
giusto conoscerlo. Per questo, quando è toccato a noi ricevere la lettera di
dimissioni5 sono andata subito a leggere il numero in fondo alla pagina:
2.580,19 euro, la cifra che avremmo pagato se la sanità non fosse pubblica, uno
dei tanti ottimi motivi per pagare le tasse.
Claudia de Lillo- Opinioni – Donna di La Repubblica – 3 marzo
2018 -
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