Kasimpasa è un
quartiere di Istanbul
di cui le guide
turistiche non parlano: non ci sono edifici storici e pochi conoscono le sue
strade strette e ripide con vista mozzafiato sul Corno d’Oro. Eppure qui è
nato, nel 1954, il presidente Tayyip Erdogan, che ha cambiato la posizione
della Turchia sulla mappa della geopolitica: da Paese filo-occidentale, come lo
voleva il padre fondatore Ataturk, al più inaffidabile dei Paesi della Nato,
che qui ha testate nucleari con la nostra complicità e la guerra Siriana. Entrata in marzo nel suo ottavo anno, la guerra era cominciata con l’obiettivo di abbattere
il regime di Assad. Ma adesso Ankara si trova dall’altra parte, alleata della
Russia e dell’Iran, i maggiori sostenitori del regime di Damasco. Quando in
aprile a Istanbul si terrà il vertice trilaterale tra Erdogan, Vladimir, Putin
e il presidente iraniano Hassan Rohani, verrà sancita la nuova posizione di
Ankara, scesa a patti con la Russia. La Siria è stata un colossale errore di calcolo. Poco
dopo l’inizio della rivolta popolare tutti pensavano che Assad avrebbe fatto
rapidamente la fine di Ben Alì, di Mubarak e di Gheddafi. Il 6 luglio del 2011
l’ambasciatore americano Robert Ford andò a passeggiare seguito dalle
telecamere in mezzo ai ribelli armati di Hama: era il segnale lanciato dal
segretario di Stato Hilary Clinton, con l’appoggio della Gran Bretagna e della
Francia, che Assad era un Bersaglio da colpire in ogni modo. Scattava così una
guerra per procura contro il maggiore alleato dell’Iran, già nel mirino degli
Usa, degli schicchi del golfo e di Israele. In Turchia arrivarono le prime
ondate di profughi ma anche i guerriglieri feriti, curati in una lussuosa
clinica di Antiochia, pagata dal Qatar. La Turchia di Erdogan, forte
dell’approvazione americana, aveva aperto sul confine “l’autostrada del Jihad”:
40 mila combattenti da tutto il mondo musulmano affluirono in Siria. Qualche
tempo dopo molti di loro si arruolarono nel Califfato. La comparsa dell’Isis fu
accolta da Ankara con pragmatismo: i jihadisti vennero rifornii di armi per
tenere a bada i curdi di Kobane. Era uno schema collaudato. Nel 1979, dopo l’invasione
sovietica dell’Afghanistan, gli Stati Uniti sferrarono l’attacco all’Armata
Rossa usando i mujaheddin basati in Pakistan e finanziati dalle monarchie del
Golfo. Nel 1988 i sovietici si ritirarono e l’anno seguente crollava il Muro di
Berlino, un grande successo, almeno in apparenza. Nella guerra siriana le
Turchia ha fatto la parte del Pakistan; Arabia Saudita e Qatar si sono
disputati la protezione delle formazioni jihadiste; e Israele osservava con
soddisfazione lo sgretolamento del regime siriano, anello della Mezzaluna
sciita che con gli Hezbollah libanesi è la spina nel fianco di Gerusalemme. Ma il 30 settembre 2015 l’ingresso in campo della Russia ha ribaltato la situazione.
L’Isis era all’apice, le cellule jihadiste ispirate del Califfato seminavano il
terrore in Europa. La Turchia prima ha tentato di opporsi a Mosca, abbattendo
un caccia russo, poi ha capito che l’Occidente non sarebbe mai intervenuto per
far fuori Assad e si è messa d’accordo con Putin e gli ayatollah perché si
stava materializzando l’incubo peggiore per Ankara: l’embrione di un stato dei
curdi siriani, considerati dai turchi “terroristi” e alleati del Pkk, il
partito armato con cui la Turchia è in conflitto da quarant’anni. L’avventura siriana stava costando cara. Erdogan aveva importato il terrorismo in casa e
quasi tre milioni di profughi ai quali era arrivato a promettere la
cittadinanza – con l’obiettivo di allargare il suo bacino elettorale –
sollevando il malcontento della popolazione, irritata dalla concorrenza di
manodopera a basso costo. Non restava che il ricatto: Erdogan ha proiettato
migliaia di profughi sulla rotta balcanica ottenendo in cambio, per
trattenerli, l’accordo con la Germania e l’Unione europea. In questa guerra i civili sono stati e continuano a essere gli ostaggi di tutti: di
Assad, dei Jihadisti, dei turchi, degli iraniani, dei russi. U disastro
umanitario e morale. Per non parlare del fallimento politico. Gli Stati Uniti,
dopo avere usato i curdi per combattere il Califfato, li hanno abbandonati. Ma il rompicapo maggiore è proprio la posizione strategica della Turchia. Alleato o
avversario? Ankara, dopo oltre 70 anni, ha cambiato campo e dopo il fallito
golpe del 2016 ha silurato 400 ufficiali di collegamento con la Nato- Il
risultato oggi è il seguente: non c’è democrazia in Siria, sostenuta da Putin e
dagli ayatollah, e neppure in Turchia, diventata una grande prigione d
giornalisti e oppositori. Un capolavoro di ipocrisia, e forse anche di
imbecillità, al quale l’Occidente non è estraneo.
Alberto Negri – L’Espresso – 25 marzo 2018 –
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