Scrivo, E Non dovrei farlo, ancora sotto l’orrore
di quello che ho visto nelle ore dell’ennesimo mattatoio umano, nel liceo di
Parkland, un piccolo paese tranquillo nell’interno della Florida, il 14
febbraio scorso. Ascolto la voce di una donna che ha una figlia di quattordici
anno asserragliata dentro la scuola dove uno o più sparatori (si saprà poi che
era un ragazzo di 19 anni che era stato espulso dal liceo, ndr) stanno vagando
e falciando professori e studenti. La sua voce è un grido, come se la figli,
perché a potesse sentirla, perché improvvisamente la ragazza ha smesso di
rispondere ai suoi sms e la madre non sa se abbia il telefonino scarico, se sia
rinchiusa in uno sgabuzzino senza campo o se sia ferita gravemente o peggio.
Scrivo, e per la milionesima volta – forse non esagero – mi chiedo quale
malattia mentale, quale forma di demenza abbia afferrato una nazione capace di
cultura, generosità, intelligenza che grida ai funerali più di 30 mila volte
all’anno: esiste un chiaro, innegabile rapporto fra il numero di armi da fuoco
circolanti e il numero di persone uccise. La medicina ci ha spiegato che avere
il colesterolo cattivo alto produce malattie cardiovascolari. Ma la più
elementare aritmetica non riesce a convincere la maggioranza degli americani
votanti che se l’88 per cento della popolazione possiede revolver, pistole
automatiche, fucili di precisione, armi d’assalto militari, molte di quelle
armi spariranno e cadranno più uomini, donne, bambini sotto i loro proiettili
di quanti ne muoiono in ogni altra nazione del mondo. Scrivo (e non dovrei
perché scrivere sotto effetto delle emozioni non va bene per chi pretende di un
giornalista), ripensando alle mille angosce che mi tenevano sveglio come padre,
gli incidenti, le aggressioni, le espulsioni, le droghe, le gravidanze non
volute, le famose “cattive compagnie”, l’alcol, l’infelicità, alle quali ora si
è aggiunta da nonno la paura che un mattino, come a Columbine. Come a Sandy
Hook, come a Parkland, entri a scuola un ex compagno di classe di 19 anni
deciso a fare una strage. Scrivo e so che non ci saranno risposte, di una
politica che non osa inimicarsi la lobby delle armi che finanzia campagne
elettorali a colpi di fucili da guerra che costano appena 500 euro (il prezzo
di uno smartphone di medio valore), ma che sarebbe troppo comodo accusare di
tutte le colpe. Sono i cittadini, o almeno quelli che vanno a votare, che
vogliono il diritto di possedere e portare armi senza limitazioni e ragionano
come l’alcolizzato che pensa di uscire dalla propria dipendenza bevendo più
whisky. Scrivo guardando la foto di quel ragazzo, Nick, che, se sarà
riconosciuto colpevole di una strage, sarà condannato a morte, come prevede la
legge della Florida, e si vantava con i compagni e le compagne di possedere un
arsenale e casse di munizioni che un giorno avrebbe scaricato contro di loro dopo
essere stato espulso senza che nessuno più si occupasse di lui. E che se,
invece di chiamarsi Nick, si fosse chiamato Mohammed o Abdul, sarebbe stato
chiuso in gabbia. Scrivo con la certezza che scriverò ancora queste stesse
cose, che quel totale di diciassette caduti subito sarà un traguardo superato,
perché ogni giorno migliaia di quegli stessi fucili semiautomatici volano via
dagli scaffali e ora la presidenza Trump ha deciso che anche i sofferenti di
disturbi mentali devono avere il sacrosanto diritto di comprarne uno. Devo
frenare l’impulso di mettere le dita sul telefonino per chiamare uno dei miei
nipoti a scuola e chiedergli se è vivo, perché è proibito tenerlo acceso. Ed è
più facile sequestrare uno smartphone che una mitragliatrice, in questa America.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 3
marzo 2018 -
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