Non so se definirla un
paradiso o una
prigione. È un paradiso perché ti senti fuori dal mondo indaffarato e incerto.
Di quel mondo non ne scopri nemmeno una traccia anche se aguzzi lo sguardo
sporgendoti dal Malecòn, il lungomare affacciato su un lungo spazio vuoto, dove
non c’è né un piroscafo né una barca. In realtà le navi cariche di turisti
approdano in tanti porti dell’isola, ma non si esibiscono davanti al Malecòn,
che è la faccia solenne di Cuba. E se giri le spalle all’Atlantico e guardi la
città la scopri senza uno sfregio pubblicitario. È come se il consumismo non
fosse arrivato sull’isola. Nell’Avana restaurata non mancano le vetrine delle
grandi firme di moda internazionali. Ma i negozi li ho sempre visti deserti.
Può anche essere una prigione perché i contatti del mondo sono controllati.
L’andirivieni quotidiano di visitatori è intenso, ma la superpotenza vicina
limita i traffici, controlla gli scambi. Nelle tre settimane trascorse a Cuba
confesso di essermi sentito piuttosto in paradiso. Mai in prigione. I cubani
non te ne danno l’occasione perché quando parlano della loro isola la vedono al
centro del mondo, ancora oggetto di interesse internazionale. Un’importante
pedina del pianeta. Non una rivoluzione appassita. Quelli che incontri sono
animati da un humor che abbellisce la realtà deprimente. Quelli che incroci per
le strade dissestate dall’incuria e dai nubifragi ti mostrano la non sempre
facile arte della sopravvivenza. L’isola vive in bilico. È ammirevole per la capacità di
arrangiarsi degli individui in un comunismo ormai solitario: è la scheggia di
una vecchia rivoluzione che non può progredire, è regredire, perché
rischierebbe di essere travolta. Vive in equilibrio. Ai tempi di Barack Obama
l’abbraccio americano poteva sgretolare velocemente il comunismo cubano e
denudare del potere il regime, di cui l’esercito è a spina dorsale. I sorrisi
di Obama rischiavano d riportare Cuba nel mondo e di riempire il mare davanti
al Malecòn di navi e mercanzie. Ma sarebbe stata la fine del comunismo e col
tempo la morte lenta del regime. Il voltafaccia di Donald Trump ha rispolverato
l’embargo, ha ferito l’isola ma l’ha costretta a una resistenza che in
definitiva, paradossalmente, aiuta il potere. Raùl Castro, il fratello
sopravvissuto, ha liberalizzato mote attività, limitandosi agli individui.
L’idraulico, il cuoco, l’elettricista il meccanico, il padrone di ristorante
possono lavorare per proprio conto, ma non creare società abilitate a espandere
la propria attività. Molti se la sanno cavare lo stesso. E si accentuano i
privilegi. Emergono le classi sociali, sotto lo sguardo vigile del regime. Ma
la società è come frenata: è in bilico tra due sistemi. Domenica scorsa, 11 marzo, otto milioni di cubani hanno eletto il nuovo Parlamento. Un
esercizio formale, poiché il numero di candidati corrispondeva esattamente al
numero dei seggi. Il 16 aprile il nuovo Parlamento (605 deputati) eleggerà a
sua volta il Consiglio di Stato, organo esecutivo supremo, cui spetterà
scegliere il nuovo capo dello Stato. A Raul Castro succederà come presidente
Miguel Diaz-Canel, attuale numero due del governo. Si tratta di un ingegnere
poco espansivo, non conosciuto come un innovatore pur essendo di fatto poiché
arrivare al vertice del potere senza appartenere alla famiglia Castro è di per
sé un’innovazione. Se il pronostico si avvererà e all’Avana per ora nessuno ne
dubita, sessant’anni dopo la presa del potere castrista, il fratello
sopravvissuto cede la massima carica dello Stato, ereditata da Fidel. Ma il
taciturno ingegnere di 57 anni diventando presidente della Repubblica, avrà
sempre alle spalle Raùl che resterà alla testa del partito, vera espressione
del potere. Soltanto nel 2021, compiuti novant’anni, Raùl si ritirerà sul
serio, dopo un congresso solenne. Soltanto allora avverrà la fine della
dinastia castrista. Spetterà dunque, di fatto, a un Castro, nonostante i
cambiamenti formali, gestire il difficile equilibrio che il regime deve
affrontare per adeguare il comunismo solitario alla nuova realtà
internazionale. La mano benevola della Cina e l’attenzione della Russia,
potrebbero essere preziose per Cuba. Sia per l’esperienza sia per gli eventuali
aiuti materiali. In attesa di eventi, l’isola è al tempo stesso un paradiso e
una prigione. Su cui sembra prevalere un orgoglio che nasconde la
rassegnazione.
Bernardo Valli – Dentro e Fuori –
L’Espresso – 18 marzo 2018
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