Sono Le Due di una domenica pomeriggio. Invece di
essere su un divano, immersa in un torpore post prandiale, sto varcando l’anticamera
dell’inferno. In principio è lo shock, termico: fa caldo, il caldo soffocante e
umido della foresta pluviale. L’istinto di autoconservazione suggerisce di
allontanarmi in fretta ma io, martire pronta all’estremo sacrificio, procedo
incurante dei segnali di disagio che il corpo mi trasmette. Dopo è il rumore,
anzi, i rumori: musica assordante, altoparlante da cui escono suoni
incomprensibili e inumani, brusio concitato e diffuso. Un effluvio, di cloro e
sudore invade le vie respiratorie. Barcollo, ma è solo un attimo. Mi concentro
sul mio obiettivo e, con orrore, mi accordo che in mezzo c’è un muro
invalicabile che oscura la visuale: dietro i posti a sedere – tutti occupati da
chi, ben più previdente di me, è arrivato qui con ore di anticipo – ci sono
quattro file compatte di gente in piedi, pronta a uccidere per difendersi quei
20 centimetri quadrati faticosamente conquistati. Approfittando del mio esiguo
ingombro fisico, mi incuneo nelle retrovie, tra un signore distratto dallo smartphone
e una donna che parla in giapponese a uno schermo con dentro un tizio che sorride
via Skype. Sorriderei anche io se ci guardassi in un video. Sono tutti più alti
di me, inclusi i bambini. Nelle situazioni estreme due sono le strade: la
solidarietà o l’odio. Regna il secondo: homo
homini lupus. Per una frazione di secondo, intercetto il mio obiettivo a un
centinaio di metri in linea d’aria da me. Sembra piccolo, fragile, smarrito.
Alzo e agito le braccia, mi dimeno come un derviscio impazzito, nella vana
speranza che lui mi noti. La mia voce che grida il suo nome si perde tra le
chiome ipertrofiche di una tizia davanti a me. “Si calma o no?”, mi domanda
esasperato il signore con lo smartphone. Mi calmo. Sono madida di sudore e mi
gira la testa. Forse perderò i sensi, mi porteranno via e lui, il mio bambino
smarrito, resterà qui, con le sue infradito, il suo costume azzurro e il suo
accappatoio in microfibra di terza mano. “Io non ci andrò mai alle gare di
nuoto”, aveva dichiarato. “Perché non provi almeno?”, avevo suggerito. Faceva
no, scuotendo la testa con la risolutezza dei suoi 8 anni. Gli ostacoli
spuntano sul nostro cammino come funghi appena mettiamo il naso in questo
mondo. Come la bellezza, stanno negli
occhi di chi guarda. E sta a noi scegliere se e come affrontarli. “Come
preferisci”, avevo risposto. Poi una meravigliosa maestra di vita, ancor più
che di nuoto, lo ha chiamato al telefono la sera prima delle gare. “Vieni con
me. Guardi e basta. Se poi ti viene voglia, provi. “Okay”, ha risposto lui,
sedotto da tanto rassicurante buon senso. “Mi scusi! Mi fa venire avanti? Solo
un momento! Quello lì, sul trampolino, è mio figlio. Non doveva nemmeno farle,
queste gare! La prego, mi lasci guardare!”, imploro un marcantonio biodo che si
erge tra di me e la vasca dove il mio bambino sta per tuffarsi. Colto da un
inatteso slancio di umanità, mi lascia passare. Il mio eroe parte in ritardo,
perde la cuffia, se la rimette, scivola sull’acqua sempre più veloce, una
bracciata dopo l’altra recupera terreno. È uno scricciolo di determinazione e
rabbia. Per 50 metri è pura estasi. Non ci sono caldo, umidità, ressa, odore. C’è
solo lui che arriva primo. Un fenomeno, mio figlio. Ma…la sua cuffia non era
rossa? Perché adesso è blu? Ho sbagliato bambino. Ho sbagliato batteria. Lui
sta per tuffarsi ora. Certo. E’ quello. Ora sì che lo riconosco. “Bene! Adesso
però torni al suo posto!”, mi ordina l’energumeno, ricacciandomi nelle
retrovie. Non vedo più niente. Saprò un paio d’ore dopo che se l’è cavata
benissimo, nonostante sua madre.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 marzo
2018 -
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