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domenica 25 marzo 2018

Lo Sapevate Che: La Potenza di un "Guarda e basta. Se vuoi, provi"...


Sono Le Due di una domenica pomeriggio. Invece di essere su un divano, immersa in un torpore post prandiale, sto varcando l’anticamera dell’inferno. In principio è lo shock, termico: fa caldo, il caldo soffocante e umido della foresta pluviale. L’istinto di autoconservazione suggerisce di allontanarmi in fretta ma io, martire pronta all’estremo sacrificio, procedo incurante dei segnali di disagio che il corpo mi trasmette. Dopo è il rumore, anzi, i rumori: musica assordante, altoparlante da cui escono suoni incomprensibili e inumani, brusio concitato e diffuso. Un effluvio, di cloro e sudore invade le vie respiratorie. Barcollo, ma è solo un attimo. Mi concentro sul mio obiettivo e, con orrore, mi accordo che in mezzo c’è un muro invalicabile che oscura la visuale: dietro i posti a sedere – tutti occupati da chi, ben più previdente di me, è arrivato qui con ore di anticipo – ci sono quattro file compatte di gente in piedi, pronta a uccidere per difendersi quei 20 centimetri quadrati faticosamente conquistati. Approfittando del mio esiguo ingombro fisico, mi incuneo nelle retrovie, tra un signore distratto dallo smartphone e una donna che parla in giapponese a uno schermo con dentro un tizio che sorride via Skype. Sorriderei anche io se ci guardassi in un video. Sono tutti più alti di me, inclusi i bambini. Nelle situazioni estreme due sono le strade: la solidarietà o l’odio. Regna il secondo: homo homini lupus. Per una frazione di secondo, intercetto il mio obiettivo a un centinaio di metri in linea d’aria da me. Sembra piccolo, fragile, smarrito. Alzo e agito le braccia, mi dimeno come un derviscio impazzito, nella vana speranza che lui mi noti. La mia voce che grida il suo nome si perde tra le chiome ipertrofiche di una tizia davanti a me. “Si calma o no?”, mi domanda esasperato il signore con lo smartphone. Mi calmo. Sono madida di sudore e mi gira la testa. Forse perderò i sensi, mi porteranno via e lui, il mio bambino smarrito, resterà qui, con le sue infradito, il suo costume azzurro e il suo accappatoio in microfibra di terza mano. “Io non ci andrò mai alle gare di nuoto”, aveva dichiarato. “Perché non provi almeno?”, avevo suggerito. Faceva no, scuotendo la testa con la risolutezza dei suoi 8 anni. Gli ostacoli spuntano sul nostro cammino come funghi appena mettiamo il naso in questo mondo.  Come la bellezza, stanno negli occhi di chi guarda. E sta a noi scegliere se e come affrontarli. “Come preferisci”, avevo risposto. Poi una meravigliosa maestra di vita, ancor più che di nuoto, lo ha chiamato al telefono la sera prima delle gare. “Vieni con me. Guardi e basta. Se poi ti viene voglia, provi. “Okay”, ha risposto lui, sedotto da tanto rassicurante buon senso. “Mi scusi! Mi fa venire avanti? Solo un momento! Quello lì, sul trampolino, è mio figlio. Non doveva nemmeno farle, queste gare! La prego, mi lasci guardare!”, imploro un marcantonio biodo che si erge tra di me e la vasca dove il mio bambino sta per tuffarsi. Colto da un inatteso slancio di umanità, mi lascia passare. Il mio eroe parte in ritardo, perde la cuffia, se la rimette, scivola sull’acqua sempre più veloce, una bracciata dopo l’altra recupera terreno. È uno scricciolo di determinazione e rabbia. Per 50 metri è pura estasi. Non ci sono caldo, umidità, ressa, odore. C’è solo lui che arriva primo. Un fenomeno, mio figlio. Ma…la sua cuffia non era rossa? Perché adesso è blu? Ho sbagliato bambino. Ho sbagliato batteria. Lui sta per tuffarsi ora. Certo. E’ quello. Ora sì che lo riconosco. “Bene! Adesso però torni al suo posto!”, mi ordina l’energumeno, ricacciandomi nelle retrovie. Non vedo più niente. Saprò un paio d’ore dopo che se l’è cavata benissimo, nonostante sua madre.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24 marzo 2018 -

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