“In democrazia ci sono le elezioni libere, in dittatura
invece no”, ripete in automatico Patrizia, educatrice di Bolzano radicata a
Bruxelles, mentre mi illustra, maneggiando la lente della democrazia e quella
della dittatura (due vere enormi lenti utili a ingrandire dei testi scritti sul
muro) uno dei tanti “atelier” nei quali ci muoviamo. Lei ha l’entusiasmo
dell’insegnante che crede nell’importanza cruciale del lavoro che fa. Io ho il
piacevole stupore dello studente che vede spiegati in maniera chiara concetti
elementari che sembrano appartenere a materie che la maggioranza non vuole
studiare. Siamo al Foyer, centro di formazione, integrazione e recupero
giovanissimi e meno giovani di Molenbeek, quartiere di Bruxelles temuto nel
mondo per avere ospitato il più noto dei terroristi del Bataclan. In realtà il
quartiere si fa vanto delle diversità che lo caratterizzano e gode di una fase
di gentrificazione che lo rende ambito dalla borghesia locale e dagli expa qui venuti a “fare l’Europa”. I
bambini vengono guidati attraverso percorsi formativi fatti di educazione
civica, specchi deformanti e altri strumenti di serissimo gioco utili a evitare
gli errori dei grandi. Mentre Patrizia illustra penso a quanto sarebbe utile per
troppi adulti nostrani tornare bambini da queste parti, ricominciare da capo
lavorando sui propri pregiudizi, esattamente come, contrariamente a quanto il
pregiudizio porterebbe a pensare, si fa proprio qui, a Molenbeek. Al Caffè
Milano, nel cuore del quartiere, tra statue di Padre Pio, carretti siciiani,
foto di Totò, Sordi, la Loren, sulla tv passa il Tg 1 e un’intervista a
Maurizio Costanzo che nessuno sta guardando. Gli italiani tornati dai cantieri,
quasi tutti con accento del Sud, bevono birra e gocano a carte seduti ai
tavolini. Intorno a me, altri italiani, con accento del Nord. Sono gli ultimi
casi di migrazione economica dall’Italia fin qui. E sono tutti di origine
marocchina. Italiani marocchini migrati in Belgio con figli nati e cresciuti in
Italia. Il pregiudizio porterebbe difficilmente a prendere sul serio la loro
voglia di votare per il Parlamento italiano, ma con accento bergamasco, Abdrahim
e la figlia Raja mi raccontano con fierezza che loro, a differenza mia che devo
attendere il 4 marzo hanno già votato. “Un cittadino senza diritto di voto è un
cittadino a metà”, sancisce perentorio Abdrahim. “Sono 25 anni che non voto. A
me l’Italia non ha dato niente”. Mi dice invece un altro italiano bevendo birra
al bancone. Quasi tutti gli “italiani”, mi dice Peppe, venuto qua da
Caltanissetta per vacanza e rimastoci per la vita a gestire il bar, hanno già
stracciato il certificato elettorale.
Diego Bianchi
– Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di La Repubblica – 2 marzo 2018 -
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