Sono una
studentessa del liceo
linguistico, e volevo chiederle un parere riguardo ai motivi e le condizioni
che hanno influenzato la mente degli studenti di oggi. Mia madre mi racconta
sempre che i giovani di un tempo impegnavano la maggior parte del loro tempo
nei discorsi politici o ambiti culturali, insomma discutevano di attualità
costantemente, ed erano divisi in destra o sinistra, entrambi facevano cortei,
protestavano contro ciò in cui non credevano reclamando ciò in cui credevano,
esprimevano le loro opinioni apertamente. Oggi non è più così, c’è un senso di
spaesamento a scuola e anche i prof si spendono più in discorsi che riguardano
l’attualità o l’Italia di oggi, vogliono solo finire il programma e a malapena
in quinta arrivano al ‘900. E da parte degli studenti? Non c’è più alcun
interesse, tutti sono influenzati e impegnati a guardare video stupidi sul
telefono, o seguire Youtuber. Noi giovani siamo diventati ignoranti, ma questo
è perché lo Stato e la Società ci vogliono così? O siamo noi che vogliamo
essere trascinati, che vogliamo essere ruote di scorta invece che la speranza
dell’umanità? Gala Ottavi ottavigala@gmail.com
Cara Gala,
Il Mondo della tua
generazione è radicalmente e ineluttabilmente diverso dal mondo che ti racconta
tua madre. Perché il mondo di tua madre, che poi era anche il mio mondo, era
governato dalla politica, che allora era il luogo delle decisioni, a partire
dalle quali la storia poteva anche cambiare corso. Per questo i giovani di
allora, culturalmente un po' più attrezzati dei giovani di oggi, avevano la
sensazione (con le loro proteste, le loro manifestazioni, le loro occupazioni
di scuole e di fabbriche, e persino, sia pure tragicamente, con le loro
violenze) di incidere sulla politica e quindi di cambiare la storia. E in parte
ci sono anche riusciti se pensiamo all’emancipazione femminile, all’accesso di
tutti all’istruzione universitaria, all’importazione della cultura europea ad
opera dell’editoria, alla creazione di un più avanzato stato sociale, alla
maggior tutela del lavoro, senza dimenticare, naturalmente, l’aspetto negativo
del terrorismo come degenerazione delle rivendicazioni sociali. Il tuo mondo,
cara Gala, che è poi il mondo attuale, non è più governato dalla politica, ma
dall’economia, nel senso che per prendere le sue decisioni, la politica guarda
l’economia. Quando addirittura non è costretta da quest’ultima a seguire
rigorosamente i dettami che essa impone, onde evitare l’emarginazione del Paese
dal mercato globale. Come puoi intuire, l’economia, dopo aver eretto il denaro
a generatore simbolico di tutti i valori assume come criterio per il suo
incremento il profitto, e quando questo è scarso o addirittura non si riesce ad
ottenerlo si chiudono le fabbriche, si delocalizzano le imprese, si comprime il
costo del lavoro, si riduce lo stato sociale. In uno scenario del genere è
ancora possibile una contestazione giovanile? È ancora efficace uno sciopero
del lavoro? Ha ancora senso una destra e una sinistra con il corredo dei loro
valori da difendere? O su tutto questo vige la logica rigorosa del mercato che
prevede unicamente il raggiungimento del massimo dei profitti con l’impiego
minimo dei mezzi? Questa logica si è imposta al punto da non essere
circoscritta unicamente ai Paesi che hanno adottato il sistema capitalistico,
com’era nel mondo descritto da sua madre, perché con la globalizzazione il
mercato è diventato mondiale e vissuto come una legge di natura. E ciò
nonostante sia sotto gli occhi di tutti che in questo sistema le merci hanno
una libertà di circolazione molto maggiore di quella di cui dispongono gli
esseri umani, che il mercato visualizza non come persone ma unicamente come
produttori e consumatori, cioè, ai diversi livelli, come suoi funzionari,
mettendo ai margini della condizione umana chi non è nelle condizioni di
produrre o di consumare. Nel mondo descritto da sua madre l’uomo era ancora il
soggetto della storia, mentre nel mondo attuale il soggetto della storia è il
mercato, dove gli uomini, come osserva Günther Anders: “hanno rinunciato a considerare se stessi (o le
nazioni o le classi o l’umanità) come soggetti della storia. Si sono lasciati
detronizzare e hanno collocato altri soggetti della storia come il mercato o la
tecnica, le cu rispettive storie non sono, come quelle dell’arte o della
musica, alcune fra le altre, bensì, nel più recente sviluppo storico, sono “la
storia”. E ne è terribile conferma il fatto che dal loro corso e dal loro
impiego dipende l’essere o il non essere dell’umanità”. Questo scenario, cara Gala,
non è frutto di pessimismo, come immancabilmente mi si accusa ogni volta che lo
propongo, ma è puro e semplice realismo, di cui coi giovani, con la vostra
rassegnazione, avete forse inconsciamente intuito l’impossibilità di
ribellarsi.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 24 marzo
2018 -
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