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sabato 10 marzo 2018

Lo Sapevate Che: Se la Costituzione finisce in carcere...


Tutti si preoccupano della diffusione di fake news, di notizie inventate, false, prodotte a tavolino. Io mi preoccupo di più delle notizie reali che esistono, che raccontano il mondo in cui viviamo, ma che vengono omesse per paura di contraddire la dittatura della percezione che ogni giorno di più mortifica la verità. Mi preoccupa la polizia che omette notizie reali, mi preoccupa la politica che non si oppone alla scomparsa dei fatti. Rita Bernardini è stata in sciopero della fame per più di un mese, dal 22 gennaio al 24 febbraio, per fare pressione sul governo perché portasse a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario. E hanno aderito allo sciopero della fame anche oltre 10mila detenuti per provare a ottenere condizioni di carcerazione umane, che rispettino quella Costituzione di cui tutti parlano ma che a pochi interessa vedere applicata. Una protesta civile, forse troppo per questo Paese, forse troppo perché fosse ascoltata. I caino hanno dato agli “uomini per bene” una lezione di civiltà per noi inimmaginabile e incomprensibile. In questa campagna elettorale, in cui tutti hanno ciarlato di sicurezza, nessuno ha avuto il coraggio di dire agli italiani che la riforma del sistema penitenziario è necessaria non solo perché nelle carceri non sono rispettati i diritti fondamentali dei detenuti – che oltre alla libertà perdono anche la dignità -, ma anche perché carceri che funzionano rendono la società più sicura. Come è possibile che quasi nessun politico di sia preso la briga di portare all’attenzione dei propri elettori i dati sulla recidiva? Come è possibile che gli italiani non sappiano che i detenuti che scontano l’intera pena in carcere tornano a delinquere nel ’70 per cento dei casi e chi invece riesce ad avere accesso alle pene alternative al carcere e un contatto con la vita normale torna a delinquere solo nel 30 per cento dei casi? I dati sulla recidiva urlano vendetta e ci dicono che, a chi fino ad oggi ha fatto campagna elettorale e non ha parlato di carcere, non interessa la sicurezza reale, ma solo quella percepita. L’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario, già di per sé manca di due elementi importantissimi, come la parte relativa al lavoro e all’affettività in carcere, è un iter accidentato. Sin dal 22 dicembre 2017 – giorno in cui il Consiglio de Ministri ha approvato il primo decreto legislativo – è stato chiaro che, in mancanza di una forte volontà politica, ogni decisione sarebbe slittata a dopo le elezioni del 4 marzo, vanificando così il lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e mortificando il lavoro di chi in questa riforma ci aveva creduto come atto di civiltà non più prorogabile. Quando si parla di carcere si crede, a torto, che ad essere coinvolte siano solo le persone che hanno diretto contatto con la detenzione: 158.087 detenuti (per circa 45mila posti letto, e questa informazione non è un dettaglio trascurabile), i 33.082 agenti di polizia penitenziaria e i funzionari giuridici pedagogici, in numero assai ridotto rispetto alle reali necessità. Quando ci si interessa al carcere, in realtà non si parla solo di loro, ma anche di noi, perché non esistono discariche sociali, ma solo luoghi in cui la democrazia perde pezzi. Ho ascoltato Donatella Stasio a Radio Carcere una conversazione con Rita Bernardini e Riccardo Arena, era a metà febbraio e ancora si nutrivano speranze che la riforma potesse non arenarsi al Consiglio dei Ministri del 22 febbraio scorso. Poi ho letto un intervento interessantissimo su questionegiustizia.it sempre a firma di Donatella Stasio, sullo stesso argomento: “La Costituzione ci sembra eversiva e i valori costituzionali disancorati dal contesto sociale. Esiste un scollamento tra il Paese reale e il patrimonio dei nostri valori: bisogna riconciliarsi con questo patrimonio”. E qui viene l’analisi più lucida, parlando di integrazione oltre che di carceri: “L’integrazione presuppone che anche noi siamo integrati rispetto ai nostri valori”. Ma quali sono i nostri valori? Quelli della “democrazia emozionale” cui la politica spesso fa appello per spaventarci? Per farci sentire costantemente con l’acqua alla gola (da vedere il cortometraggio di Gipi andato in onda il 23 febbraio su La7 a Propaganda Live)? Chi siamo veramente, dove siamo stati prima di arrivare qui? Ricordiamo i racconti dei nostri nonni, racconti pieni di sofferenza, speranza, ma soprattutto di buon senso. Ricordiamo chi siamo: parole e terra, cultura e concime.
Roberto Saviano – L’Antitaliano – L’Espresso – 4 marzo 2018 -

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