Tutti si preoccupano della diffusione di fake news, di
notizie inventate, false, prodotte a tavolino. Io mi preoccupo di più delle
notizie reali che esistono, che raccontano il mondo in cui viviamo, ma che
vengono omesse per paura di contraddire la dittatura della percezione che ogni
giorno di più mortifica la verità. Mi preoccupa la polizia che omette notizie
reali, mi preoccupa la politica che non si oppone alla scomparsa dei fatti.
Rita Bernardini è stata in sciopero della fame per più di un mese, dal 22
gennaio al 24 febbraio, per fare pressione sul governo perché portasse a
termine la riforma dell’ordinamento penitenziario. E hanno aderito allo
sciopero della fame anche oltre 10mila detenuti per provare a ottenere
condizioni di carcerazione umane, che rispettino quella Costituzione di cui
tutti parlano ma che a pochi interessa vedere applicata. Una protesta civile,
forse troppo per questo Paese, forse troppo perché fosse ascoltata. I caino
hanno dato agli “uomini per bene” una lezione di civiltà per noi inimmaginabile
e incomprensibile. In questa campagna elettorale, in cui tutti hanno ciarlato
di sicurezza, nessuno ha avuto il coraggio di dire agli italiani che la riforma
del sistema penitenziario è necessaria non solo perché nelle carceri non sono
rispettati i diritti fondamentali dei detenuti – che oltre alla libertà perdono
anche la dignità -, ma anche perché carceri che funzionano rendono la società
più sicura. Come è possibile che quasi nessun politico di sia preso la briga di
portare all’attenzione dei propri elettori i dati sulla recidiva? Come è
possibile che gli italiani non sappiano che i detenuti che scontano l’intera
pena in carcere tornano a delinquere nel ’70 per cento dei casi e chi invece
riesce ad avere accesso alle pene alternative al carcere e un contatto con la
vita normale torna a delinquere solo nel 30 per cento dei casi? I dati sulla
recidiva urlano vendetta e ci dicono che, a chi fino ad oggi ha fatto campagna
elettorale e non ha parlato di carcere, non interessa la sicurezza reale, ma
solo quella percepita. L’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario, già
di per sé manca di due elementi importantissimi, come la parte relativa al
lavoro e all’affettività in carcere, è un iter accidentato. Sin dal 22 dicembre
2017 – giorno in cui il Consiglio de Ministri ha approvato il primo decreto
legislativo – è stato chiaro che, in mancanza di una forte volontà politica,
ogni decisione sarebbe slittata a dopo le elezioni del 4 marzo, vanificando
così il lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e mortificando il
lavoro di chi in questa riforma ci aveva creduto come atto di civiltà non più
prorogabile. Quando si parla di carcere si crede, a torto, che ad essere
coinvolte siano solo le persone che hanno diretto contatto con la detenzione:
158.087 detenuti (per circa 45mila posti letto, e questa informazione non è un
dettaglio trascurabile), i 33.082 agenti di polizia penitenziaria e i
funzionari giuridici pedagogici, in numero assai ridotto rispetto alle reali
necessità. Quando ci si interessa al carcere, in realtà non si parla solo di
loro, ma anche di noi, perché non esistono discariche sociali, ma solo luoghi
in cui la democrazia perde pezzi. Ho ascoltato Donatella Stasio a Radio Carcere
una conversazione con Rita Bernardini e Riccardo Arena, era a metà febbraio e
ancora si nutrivano speranze che la riforma potesse non arenarsi al Consiglio
dei Ministri del 22 febbraio scorso. Poi ho letto un intervento interessantissimo
su questionegiustizia.it sempre a firma di Donatella Stasio, sullo stesso
argomento: “La Costituzione ci sembra eversiva e i valori costituzionali
disancorati dal contesto sociale. Esiste un scollamento tra il Paese reale e il
patrimonio dei nostri valori: bisogna riconciliarsi con questo patrimonio”. E
qui viene l’analisi più lucida, parlando di integrazione oltre che di carceri:
“L’integrazione presuppone che anche noi siamo integrati rispetto ai nostri
valori”. Ma quali sono i nostri valori? Quelli della “democrazia emozionale”
cui la politica spesso fa appello per spaventarci? Per farci sentire
costantemente con l’acqua alla gola (da vedere il cortometraggio di Gipi andato
in onda il 23 febbraio su La7 a Propaganda Live)? Chi siamo veramente, dove
siamo stati prima di arrivare qui? Ricordiamo i racconti dei nostri nonni,
racconti pieni di sofferenza, speranza, ma soprattutto di buon senso.
Ricordiamo chi siamo: parole e terra, cultura e concime.
Roberto Saviano – L’Antitaliano – L’Espresso – 4 marzo 2018 -
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