Era
Sabato Mattina e dovevo uscire. Avevo appuntamento in centro con un’amica per
prendere un caffè e aggiornarci sugli ultimi mesi delle rispettive vite. Ero
contenta e trepidante perché alcune pratiche semplici, in certe fasi della
vita, diventano sublime lusso. Stavo davanti allo
specchio per un’ultima occhiata vigile al decoro, quando, con i piedi nudi e
uno sbrindellato pigiama a scacchi, è arrivato il figlio numero tre. In una
mano teneva una penna, il cui inchiostro gli aveva lasciato tracce fin dietro
le orecchie. Nell’altra sventolava la pagina delle parole crittografate di una
rivista di enigmatica. “Il numero tre è la A e il nove è la M, sono sicuro! Ma
qui mi viene una parola che non esiste! Mi aiuti?”. Mi sono seduta accanto a
lui e insieme abbiamo districato il groviglio di parole e numeri. Dopo, mentre
pedalavo forsennata alla volta del mio adulto e agognato caffè, certa del mio
ritardo all’appuntamento, mi sono domandata perché di fronte all’emergenza
enigmatica di un figlio non so dire: “Ora non posso, ho da fare. Chiedi a
qualcuno dei tanti maschi che popolano questa casa”. Perché, al cospetto di
richieste filiali bizzarre, purché cortesi, mi trovo sempre a sorridere e a
dire: “Sì, certo”! Ho un bug come un videogioco con degli errori di
programmazione. Quale debolezza, quale perversione materna-schiavile, quale
senso di colpa grava su di me? E, ferma a un semaforo, ho finalmente capito. I
figli non mi sono capitati. Li ho desiderati sin da quando ho memoria dei miei
desideri. Li ho immaginati a lungo e alla fine sono arrivati. Per me quei tre,
per quanto faticosi e impegnativi, sono una festa, una fortuna e un privilegio.
Quei tre sono miei ospiti, perché non hanno chiesto di venire ma siamo stati
noi a invitarli qui. E come ospiti vanno trattati. Per questo, pur sgridandoli,
arrabbiandomi, mettendo regole e paletti, persino punendoli quando serve,
voglio che si sentano i benvenuti. Per questo mostro loro il mio lato migliore
e accogliente, i miei sì, le mie porte aperte. Per questo rendo loro la vita
facile, anche quando la mia non lo è. Per questo voglio che, accanto a me, la
loro anfitriona, pensino: “Beh, in fondo si sta bene qui”. E l’ospitalità non
c’entra con la responsabilità che ho e avrò sempre nei loro confronti, né con
l’accudimento materiale ed emotivo o gli altri doveri che il ruolo materno
impone. Così da 14 anni sorrido, rispondo a richieste improbabili rimandando
tutto il resto, intreccio immaginarie e quotidiane ghirlande di benvenuto, mi
fermo a fare un crucipuzzle, trascuro tutti gli altri e in primis me stessa
affinché i miei tre invitati stiano comodi accanto a me che, con il loro papà,
sono la causa del loro essere qui. E scusandomi con l’amica che avevo fatto
aspettare, mi sono chiesta quando si esaurisce il nostro ruolo di padron di
casa, chiesta quando si esaurisce il nostro ruolo di padroni di casa. Quando i
figli smettono di essere graditi come ospiti e di trasformano in solidali
conviventi, gravati dai medesimi diritti e doveri dello stare al mondo? Quando
mi sentirò legittimata a dire: “Ora non posso arrangiati. Non sono sempre qui
per te. A volte, sai, ho altro da fare”? Non durante la loro infanzia, così
preziosa, macchiata d’inchiostro e interrogativi. Non durante l’adolescenza, in
cui un giorno avranno la crudeltà di rinfacciarci che non ci hanno chiesto loro
di invitarli. Non durante la giovinezza, in cui sbocciano e vogliamo godere dei
loro fiori fragili e profumati. Per quando diventeranno genitori a loro volta perché
avranno bisogno di un posto, tra le nostre braccia, dove sentirsi ancora figli.
Ed ecco la terrificante epifania: resterò un’amabile locandiera fino alla fine
dei miei giorni, intenta per sempre a porgere soluzioni crittografate.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 19 marzo
2018 –
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