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sabato 30 settembre 2017

Lo Sapevate Che: Se si è cresciuti in una comunità, non è possibile essere stranieri...



In Vista Dell’Ingresso di qualsiasi individuo in una comunità, ho sempre pensato che, più che allo ius soli, ci si dovrebbe appellare allo ius mentis. Perché in una comunità sociale, dalla famiglia allo Stato, non si entra per un barbarico o fantomatico ius sanguinis, né per il tanto oggi evocato ius soli. Affinché una qualsiasi comunità si costituisca, non è sufficiente la biologia, né la geografia: bisogna che gli individui si incontrino, si scambino sentimenti e idee, e di questo scambio facciano il nutrimento vero della coappartenenza. Qualche tempo fa, Papa Francesco ha specificato ancora meglio il diritto all’appartenenza a una stessa comunità, invocando il principio dello ius culturae; meno buoni appaiono coloro che potrebbero prendere la palla al balzo per risolvere lo ius culturae nello ius culti. Così, a voler andare per la strada del pontefice, ma dissipando ogni presuntuoso equivoco tra cultura e culto, si potrebbe fare appello fare appello al termine inequivoco e originario con cui i Greci indicavano la crescita e l’ingresso di un individuo nella comunità: paideia. Ovvero, la formazione del giovane nell’anima e nel corpo, con le letture e le conversazioni per la prima e la ginnastica per il secondo. Ecco, da qui bisogna ripartire, a cominciare dagli stessi giovani (e meno giovani!) cosiddetto italiani, per legittimare la propria italianità.   Giuseppe  Capello giuseppecapello69@bot.mail.com

Il Problema Dell’Immigrazione e dell’accoglienza può trovare più facilmente una soluzione se smantelliamo alcuni stereotipi, come la nostra presunta “identità nazionale”, enfatizzata dal fascismo che si rifaceva ai fasti dell’impero romano, dimenticando che non c’è mai stato impero tanto composito come quello: la circolazione di persone, che provenivano da ogni parte del mondo allora conosciuto, lo hanno reso un esempio di multiculturalismo ante litteram. Dopo il crollo dell’impero romano, l’Italia ha subito ininterrotte invasioni, da parte di popol che la storiografia ha definito “barbari”. Con la nascita degli Stati europei, non sono mancate le occupazioni di spagnoli, francesi, austriaci o tedeschi: hanno a tal punto mescolato usi, costumi e credenze, che parlare di “etnie” o “identità nazionali” è così arcaico, se non addirittura artificialmente ideato per respingere chi non vogliamo accogliere per motivi inconfessabili, come il timore che il suo sopraggiungere ci impoverisca. A questo punto, è inutile ribadire la nostra presunta “identità” che lo straniero, con la semplice sua presenza, concorre a rafforzare; perché questa identità da cosa è data? Dai valori di libertà, uguaglianza, fraternità proclamati dalla rivoluzione francese, ma già anticipati dal cristianesimo alle origini, quando affermava che non dovevano più esserci padroni né schiavi, che eravamo tutti figli di Dio e che dovevamo aiutarci reciprocamente, in base al comandamento dell’amore verso il prossimo? Questi valori non sono minacciati dallo straniero, perché è da tempo che vi abbiamo rinunciato, riducendo la libertà e l’uguaglianza a diritti formali, ma non sostanziali. Mentre la fraternità l’abbiamo affidata al buon cuore, quando non a losche speculazioni. (..). La soluzione che lei, caro lettore, indica è quella che ci hanno insegnato gli antichi Greci. Come ci ricorda Isocrate: “Atene ha fatto sì che il nome di elleni designi non più una stirpe (ghénos), ma un modo di pensare (diànoia). Per cui siano chiamati elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma quelli che hanno in comune con noi una paideia”. Paideia è la capacità di apprendere, che non si eredita con il sangue, ma si impara crescendo insieme. Ora, se i bambini nati in Italia sono cresciuti insieme con i bambini italiani, hanno frequentato le stesse scuole, acquisito gli stessi insegnamenti, rispondono perfettamente al principio greco della paideia, e perciò vanno riconosciuti come italiani. Altrimenti barbari diventiamo noi, che discriminiamo non in base alla cultura, ma al colore della pelle.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 23 settembre 2017 - 

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