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sabato 16 settembre 2017

Lo Sapevate Che: Melting Pot? Non al pronto soccorso...



Accartocciato Sulla Pancia dolente, scosso da conati, il paziente, fu scaricato al pronto soccorso dell’Oregon Science Hospital di Portland. Gli infermieri lo distesero a fatica sul letto e il medico della E.R., dell’emergenza, si avvicinò subito, prendendogli il polso tra le dita e avvicinando lo stetoscopio al petto. L’uomo si riscosse, aprì gli occhi e “No!”, urlò disperato, “Noooo!”. “Ma “no” cosa”, gli domandò l’infermiera cercando di calmarlo. “Non la voglio”, gorgogliò lui. Il medico sorrise, perché aveva capito. Aprendo gli occhi, il malato aveva visto qualcosa che lo aveva terrorizzato. Quella dottoressa aveva un inconfondibile, visibilissimo viso cinese. Cosa non sorprendente, essendo lei, Esther Choo, figlia di immigrati cinesi, “Voglio un medico americano”, mugugnava il paziente. “Guardi che io sono americana, sono nata qui, a Portland”. “Voglio un medico americano bianco”, insisteva lui. “Lei ha probabilmente un attacco di peritonite acuta, dobbiamo muoverci con rapidità”, cercava di spiegargli la dottoressa Choo, sfiorandogli il ventre con dita leggere. “Voglio un medico bianco…”. “Lei ha il diritto di rifiutare le mie cure, ma la avverto che io sono il medico più qualificato qui al Pronto Soccorso, insegno Medicina d’emergenza in questa università da undici anni e dopo di me c’è soltanto l’interno, una giovane fresca di studi che sta facendo pratica e mi assiste. “Portatemi via, portatemi via”, implorava istericamente l’uomo, e i barellieri lo ricaricarono in ambulanza, verso il suo destino. Esther Choo ha raccontato questa scena nel suo account Twitter e poi in tv. La reazione è stata sorprendente, ma soltanto per coloro che non conoscono, che non capiscono a quali abissi di stupidità autolesionista possa scendere la xenofobia dei suprematisti dell’America bianca, quelli che considerano chiunque non abbia la loro stessa carnagione come un essere inferiore. Accade ovunque, e più di una volta nel corso dell’anno, che pazienti trasportati d’urgenza al pronto soccorso rifiutino di farsi mettere le mani addosso da medici che siano afroamericani o comunque non bianchi, o che parlino con accenti stranieri. La dottoressa Choo e tutti i medici che devono affrontare la superstiziosa idiozia dei razzisti non si offendono, non polemizzano. “Ogni paziente che arriva al pronto soccorso merita tutta la mia attenzione e il mio rispetto, anche se lui, o più raramente lei, non rispetta me. Non sono persone cattive o malintenzionate, spesso sono soltanto ignoranti”. Il caso del malato colpito da peritonite (la diagnosi preliminare si era rivelata corretta) risale ai giorni successivi allo scontro di Charlottesville, Virginia, dove una donna è stata uccisa da un neonazista in auto. La vicenda ha avuto un doppio lieto fine: l’uomo è stato curato altrove e, una volta dimesso, è tornato all’Oregon Science Hospital per incontrare Esther Choo e scusarsi con lei. “Ero sconvolto dal dolore, non sapevo quello che dicevo e facevo”, le ha detto, e i due si sono stretti la mano. Non è raro, le hanno scritto colleghi da tutti gli Usa, che questi fanatici accecati dalla propaganda, dall’odio, dall’ambiente tossico nel quale sono cresciuti, dai politicanti che li aizzano e li sfruttano, si ammansiscano e tornino alla ragione dopo qualche minuto di conversazione con il medico “straniero”. Conversioni che dovranno avvenire più spesso, perché già oggi quasi un terzo dei medici degli Stati Uniti (il 30 per cento) sono nati all’estero, e molti di più sono americani per nascita ma figli di immigrati con cognomi non “anglo”. Ci sono poche strade, e strette, perché finalmente si setta di giudicare le persone dal colore della pelle e dai tratti del volto. E una passa dallo studio del medico.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 9 settembre 2017 -

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