Accartocciato Sulla
Pancia dolente,
scosso da conati, il paziente, fu scaricato al pronto soccorso dell’Oregon
Science Hospital di Portland. Gli infermieri lo distesero a fatica sul letto e
il medico della E.R., dell’emergenza, si avvicinò subito, prendendogli il polso
tra le dita e avvicinando lo stetoscopio al petto. L’uomo si riscosse, aprì gli
occhi e “No!”, urlò disperato, “Noooo!”. “Ma “no” cosa”, gli domandò
l’infermiera cercando di calmarlo. “Non la voglio”, gorgogliò lui. Il medico
sorrise, perché aveva capito. Aprendo gli occhi, il malato aveva visto qualcosa
che lo aveva terrorizzato. Quella dottoressa aveva un inconfondibile,
visibilissimo viso cinese. Cosa non sorprendente, essendo lei, Esther Choo,
figlia di immigrati cinesi, “Voglio un medico americano”, mugugnava il paziente.
“Guardi che io sono americana, sono nata qui, a Portland”. “Voglio un medico
americano bianco”, insisteva lui. “Lei ha probabilmente un attacco di
peritonite acuta, dobbiamo muoverci con rapidità”, cercava di spiegargli la
dottoressa Choo, sfiorandogli il ventre con dita leggere. “Voglio un medico
bianco…”. “Lei ha il diritto di rifiutare le mie cure, ma la avverto che io
sono il medico più qualificato qui al Pronto Soccorso, insegno Medicina d’emergenza
in questa università da undici anni e dopo di me c’è soltanto l’interno, una
giovane fresca di studi che sta facendo pratica e mi assiste. “Portatemi via,
portatemi via”, implorava istericamente l’uomo, e i barellieri lo ricaricarono
in ambulanza, verso il suo destino. Esther Choo ha raccontato questa scena nel
suo account Twitter e poi in tv. La reazione è stata sorprendente, ma soltanto
per coloro che non conoscono, che non capiscono a quali abissi di stupidità
autolesionista possa scendere la xenofobia dei suprematisti dell’America
bianca, quelli che considerano chiunque non abbia la loro stessa carnagione
come un essere inferiore. Accade ovunque, e più di una volta nel corso
dell’anno, che pazienti trasportati d’urgenza al pronto soccorso rifiutino di
farsi mettere le mani addosso da medici che siano afroamericani o comunque non
bianchi, o che parlino con accenti stranieri. La dottoressa Choo e tutti i
medici che devono affrontare la superstiziosa idiozia dei razzisti non si
offendono, non polemizzano. “Ogni paziente che arriva al pronto soccorso merita
tutta la mia attenzione e il mio rispetto, anche se lui, o più raramente lei,
non rispetta me. Non sono persone cattive o malintenzionate, spesso sono
soltanto ignoranti”. Il caso del malato colpito da peritonite (la diagnosi
preliminare si era rivelata corretta) risale ai giorni successivi allo scontro
di Charlottesville, Virginia, dove una donna è stata uccisa da un neonazista in
auto. La vicenda ha avuto un doppio lieto fine: l’uomo è stato curato altrove
e, una volta dimesso, è tornato all’Oregon Science Hospital per incontrare
Esther Choo e scusarsi con lei. “Ero sconvolto dal dolore, non sapevo quello
che dicevo e facevo”, le ha detto, e i due si sono stretti la mano. Non è raro,
le hanno scritto colleghi da tutti gli Usa, che questi fanatici accecati dalla
propaganda, dall’odio, dall’ambiente tossico nel quale sono cresciuti, dai
politicanti che li aizzano e li sfruttano, si ammansiscano e tornino alla
ragione dopo qualche minuto di conversazione con il medico “straniero”.
Conversioni che dovranno avvenire più spesso, perché già oggi quasi un terzo
dei medici degli Stati Uniti (il 30 per cento) sono nati all’estero, e molti di
più sono americani per nascita ma figli di immigrati con cognomi non “anglo”.
Ci sono poche strade, e strette, perché finalmente si setta di giudicare le
persone dal colore della pelle e dai tratti del volto. E una passa dallo studio
del medico.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 9
settembre 2017 -
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