L’Incontro Con Il
Rabbino Joseph e la
moglie. Deborah avviene all’uscita del cinema. Sono loro ad avvicinarsi. Li ha
colpiti il fatto che siamo andati a vedere un film su di loro. Impossibile non
notarci: quella sera al Lincoln Plaza Cinema siamo solo in sei. Mia moglie e io
con i nostri amici Marini. Qualche fila dietro, Joseph, e Deborah osservavano
le nostre reazioni. Il film è un gioiello, la sala è vuota solo perché lo danno
da mesi. Menashe è stato girato nella
comunità, recitano se stessi di ebrei ortodossi hassidici di Borough Park,
Brooklyn. Tutti gli attori sono non professionisti, recitano se stessi.
Menasche, il protagonista, è rimasto vedovo da giovane. Le regole della Tonah, p la loro interpretazione da
parte del rabbino, vietano che sia lui ad allevare il figlio: ci vuole una
famiglia “vera”, con una madre. Quindi il bambino, che il padre adora, viene
affidato al cognato (fratello della defunta moglie) con cui Menasche ha un
pessimo rapporto. Per recuperare il figlio dovrebbe sposarsi. Ma i matrimoni
vengono combinati. E le donne che il rabbino gli propone non gli piacciono. La
storia viene raccontata in tono leggero, talvolta comico. Quello che colpisce
noi quattro è il contesto. Stefania per molto tempo crede che il film sia
girato in Israele. In effetti non si vede mai un non ebreo, e l’unica lingua
parlata è lo yiddish, con sottotitoli in inglese. Solo verso la fine, nel
negozio alimentare kosher dove Menasche lavora come commesso, c’è un breve
incontro con due fattorini messicani: unico contatto con il mondo esterno,
popolato da altri gruppi etnici. La comunità hasidica è del tutto
autosufficiente: hanno le loro scuole e perfino la loro polizia
(un’organizzazione di volontari in accordo con il New York Police Department).
Lavoro, matrimonio, educazione dei figli, tutto è regolato dalla Tprah e dal
rabbino. In fondo non è molto diverso dal concetto della shariah islamica, una
legge religiosa che presiede a ogni aspetto della vita sociale: Salvo che tra
questi hassidici non c’è traccia di ostilità né di risentimento verso il resto
dell’America. Perché il resto dell’America non esiste, se non incidentalmente
quando uno di loro osserva che “i Gentili (non ebrei) sfasciano le loro famiglie”.
I matrimoni combinati, la forte pressione della comunità per tenere insieme
l’istituto familiare: tutto questo mi fa venire in mente l’India, dove persone
colte e cosmopolite difendono la tradizione che vuole che siano i genitori ad
accoppiare moglie e marito, anziché affidarsi all’innamoramento tra giovani
inesperti. All’uscita Joseph si presenta come “rabbino ortodosso”,
evidentemente di un’altra ortodossia: non veste gli abiti tradizionali
hassidici né porta i riccioli. Deborah fa la traduttrice dallo Yiddish
all’inglese e ha lavorato con il premio Nobel Isaac Bashevis Singer. Ci spiegano
i dettagli rituali di quel mondo hasidico che conoscono bene, pur non facendone
parte. Affettuosi, calorosi, vogliono invitarci a casa loro. Spero che li
rivedremo. È una delle meraviglie di New York, questa concentrazione di etnie e
culture diverse. Vivere qui a volte è come esplorare il mondo intero. A 40
minuti di metropolitana da casa mia c’è un universo a parte, dove lingua, abiti
e usanze non hanno niente a che vedere con “l’America”. Eppure contribuiscono
alla complicata identità di questa nazione. Joseph e Deborah, che durante la
conversazione appaiono di idee avanzate, aperte e progressiste, sono felici
perché il film accenna alla possibilità di un lieto fine. Al termine, Menasche
si veste di tutto punto come un hassidico perfetto, col cappotto lungo e il
cappello alto, segno che forse si è deciso a trovare moglie. “Ci vuole una
donna nella vita, per dare stabilità”, osservano i nostri improvvisati amici di
quella sera.
Federico
Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 16 settembre 2017
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