L’Economista Marxista
Barese, e io stiamo
insieme da 23 anni, abbiamo tre figli, una casa con il mutuo e un’automobile,
ma non abbiamo mai vissuto insieme, sotto lo stesso tetto, come fa di solito la
maggior parte delle coppie Io sto a Milano, da sempre: lui dopo avere lasciato
la Puglia per studiare, ha girovagato un po', senza nemmeno avvicinarsi per
sbaglio alla Lombardia, per poi scoprire che il luogo più adatto allo studio
della formula della rivoluzione proletaria è Londra. Il giorno del nostro
matrimonio la mia amica Erika lesse la storia di Elide e Arturo. Erano anche
loro sposi, anche loro innamorati, anche loro lontani. Facevano gli operai, lui
aveva il turno di notte e lei quello di giorno. Si incontravano per poco, la
mattina presto, quando uno si alzava e l’altro si svegliava. Si ritrovavano la
sera, lei stanca lui con la testa già in fabbrica. Il loro era uno sfiorarsi
lieve, un costante languore, la ricerca dell’altro nel tepore e nella forma di
un materasso vuoto. Mentre la mia amica leggeva le parole di Italo Calvino che,
nell’Avventura di due sposi, dava una magistrale interpretazione delle
difficoltà degli amori, io un po' ridevo e un po' piangevo perché allora ci era
già chiaro che il destino di Elide e Arturo, condannati allo struggimento
dell’assenza, sarebbe stato anche il nostro. Ci siamo accomodati, anno dopo
anno, in una consuetudine di partenze e ritorni, di solitudine e felicità, di
indipendenza, di autonomia, di vuoti e pieni, di fiducia reciproca, di racconti
prima per telefono (“Mia madre ha detto che non che non possiamo più sentirci:
l’ultima bolletta era di 600mila lire”) e per lettera (“Mamma, cosa vuol dire
francobollo?” mi ha domandato mio figlio la scorsa settimana), poi per posta
elettronica, sms. Skype e WhatsApp. Ci siamo inseguiti in treno, in macchina e
in aereo. Ci siamo domandati se tutto questo rincorrersi avesse un senso e un
approdo. Ci siamo aspettati e, nell’attesa, ci siamo immaginati, a volte come
volevamo noi. Non ci siamo mai persi, ma riconoscerci richiede sempre una buona
dose di impegnarci e di tempo. Oggi siamo rodati. Lasciarci è una fitta che
passa in fretta. Ritrovarci è una festa che ci godiamo in cinque e, spesso
invano, cerchiamo di ritagliarci in due. La lontananza ci risparmia l’usura, la
noia, l’abitudine, l’assuefazione. Ci mette al riparo dalle miserie della
prossimità, dall’alienazione dell’intimità. Certo, talvolta lo scarso tempo
insieme si fa frenesia e si riduce a comunicazioni urgenti e asettiche,
militaresca divisione dei compiti, secchi ordini, freddi su tomatismi. Ma forse
questa è una piaga comune alle famiglie numerose. Oggi abbiamo capito che le
coppie normali non esistono che ognuno ha la propria ricetta. La nostra è un
po' bislacca ma è quella giusta per noi. Tuttavia l’estate le nostre strade si
uniscono e ci scopriamo come gli altri, come quelli che si dicono buonanotte la
sera e buongiorno la mattina, che allungano una mano e si trovano, che si
vogliono bene da vicino. E ogni volta, quando la prossimità finisce e la nostra
normalità ricomincia, mi prende la rabbia, l’inquietudine e lo sconforto. E
vorrei essere consumata dalla noia della prossimità. “Elide andava a letto,
spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il
posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva
che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e
ne provava una grande tenerezza”. Allora mi dico che quella tenerezza è il
nostro segreto, il nostro scudo spaziale, la nostra inestimabile ricchezza. E,
come Elide, mi addormento.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 23
settembre 2017 -
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