Aristotele Affermava
Che l’uomo è l’unico animale che ride. È una definizione
che mi piace molto e che contrasta con quella comune, che vuole l’uomo un
animale razionale. Perché dopotutto la storia e tanto più la situazione
attuale, ci mostrano che di razionale c’è ben poco in quello che l’uomo fa. È
altrettanto vero che c’è ben poco da ridere, ma ritengo che l’umorismo possa
essere un’ottima terapia rispetto alla pesantezza della totale adesione alle
cose. Forse ridere è una strategia più adeguata nei confronti dell’insensatezza
e distacco. In ogni caso, come Freud ci insegna, il motto di spirito implica
doti simboliche, emotive, capacità di pensiero astratto e trasversale che
mancano a quelli umani incapaci di distinguere tra realtà e finzione. Silvia
Camerini silcvam@alice.it
Senza Dubbio Ridere è una cosa seria (Mondadori), come si intitola un libro della psicologa
Donata Francescato, se è vero che anche il più serio degli antichi saperi, la
filosofia, venne accolta con Talete (suo primo rappresentante), dal riso di una
servetta trace, la quale riferisce Platone nel Teeteto: “Scoppiò in una risata nel vedere il filosofo cadere in un
pozzo, affaccendato com’era a conoscere le cose del cielo, senza accorgersi
delle cose che aveva davanti e tra i piedi”. L’uomo, questo animale che, come
dicevano gli antichi Greci, ha il linguaggio già intorno al secondo-terzo mese
di vita, prima ancora di parlare, sorride nel percepire qualcosa del mondo
esterno. Di solito è un volto umano, quello della madre, con cui il bambino
istituisce una prima relazione preferenziale. Questo sorriso non può essere
ancora letto come espressione di un fatto emotivo, ma a poco a poco, grazie al
rinforzo positivo che riceve prima della madre e poi, crescendo, dal mondo,
acquista un significato sociale, traducendosi da automatismo a espressione
intenzionale di uno stato affettivo. Fino a giungere, dopo una lunga
elaborazione, alle modulazioni di risposte affettive di vario grado, secondo
quella gamma sconfinata di significati che vanno dal compiacimento alla
soddisfazione, dal sarcasmo all’ironia e al disprezzo. Freud scrive: “I miei
pazienti ridono quando sono sul punto di scoprire qualcosa d’inconscio”. Qui il
riso svolge una funzione difensiva dal timore di scoprire chissà quale verità
sconvolgente o vergognosa. Ma se l’Io ride dell’inconscio per difendersi dal
timore che da quell’abisso scaturisca una verità che non vuole riconoscere,
quando è l’Io a essere eccessivamente spaventato da qualcosa di reale che gli
appare come una sciagura irreparabile, a consolarlo interviene il suo Super-io
che, dice Freud, proprio come rappresentante dell’istanza genitoriale, tratta
l’Io come un bambino, a cui mostra l’irrilevanza dei suoi tormenti,
sorridendone e offrendogli una consolazione e una difesa dal dolore, come se
gli dicesse: “Guarda, così è il mondo che sembra tanto pericoloso. Un gioco
infantile, buono appunto per scherzarci su!”. Mi pare, cara Lettrice, che lei
condivida, questa tesi di Freud, ma io gliene propongo una ancora più radicale,
che prende le mosse da Aristotele: il riso scaturisce dall’aspetto comico che
deriva dall’irragionevolezza o dall’inconseguenza logica di chi sta parlando
con noi con una serie di argomentazioni che non approdano a nulla, Su questo
tema del nulla ritorna Kant, che coglie nel riso “il piacere per un pensiero
che in fondo non rappresenta nulla”. (..). Il godimento e il riso che lo
esprime attestano l’emorragia del valore, dell’imperativo morale, dei codici
istituzionali (situazioni, ruoli, persone d’identità delle parole, e del
soggetto, si annulla nel riso. Per niente. Non per esprimere un inconscio, come
riteneva Freud”. Il piacere della battuta, del motto di spirito è, per
Baudrillard, il piacere dell’ambivalenza dei significati che entrano in
cortocircuito tra loro, annullandosi. Qui il “senso” non ha presa, scambiandosi
col “doppio senso”, dove nulla si risparmia, ma tutto si disperde nel riso come
in un attimo di liberazione. Non si ride mai da soli, perché il riso non ha
senso se non nello scambio, che ha tutto il carattere dello scambio simbolico,
non ultimo l’obbligatorietà. Serbare per sé una barzelletta è assurdo, così
come non ridere è offensivo, infrange le leggi sottili dello scambio, dove è
ribadito il tratto tipico dell’uomo che anche nel riso ribadisce la sua natura
di animale sociale.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 9
settembre 2017 -
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