Luca Ronconi è uno di quegli artisti
che ha accompagnato la vita di una generazione. Si aspettava un suo nuovo
spettacolo con la stessa impazienza con la quale si attendeva un latro album di
Paolo Conte, un libro di Italo Calvino, un progetto di Renzo Piano o un film di
Roman Polanski e, detto ai lettori più giovani, con un’altra felicità rispetto
al conto alla rovescia per la terza serie di Narcos o la sesta di House of
Cards, che pure non sono niente male. Ronconi manca a chi ha avuto la fortuna
di conoscerlo, di apprezzarne la scintillante ironia e di assistere, autentico
privilegio, a indimenticabili prove teatrali dove lui cavava a getto continuo
dai testi significati inattesi come i prestigiatori estraggono conigli da un
cilindro. Ma soprattutto manca al teatro e alla cultura italiani. Non ci sarà
un altro come lui. Non può esserci, neppure se vi fosse. Nel senso che un
Ronconi di trent’anni oggi dovrebbe andare a lavorare all’estero, in Francia,
Belgio o Germania, insomma dove si può fare teatro sul serio. Nel nostro paese,
d’immensa tradizione teatrale, lo spettacolo non è più un mestiere
riconosciuto, ma un passatempo per ricchi o aspiranti poverissimi. Come gli
insegnanti, gli uomini e le donne di spettacolo possono dedicare al proprio
lavoro soltanto gli scampoli rubati alla vera attività che consiste nel trovare
fondi, compilare carte bollate, curare i rapporti con i politici nazionali o
locali e tirare così a campare. L’Italia è al penultimo posto in Europa per
investimenti in istruzione e all’ultimo in cultura, con una certa coerenza.
Quanto meno sono istruiti i cittadini, tanto meno soffriranno per l’estinzione
del cinema e teatro nazionali. In trent’anni i fondi pubblici per lo spettacolo
(Fus) si sono ridotti di tre quarti, con soddisfazione dei media che ne hanno
spesso denunciato l’uso clientelare. Non sempre a torto, con una enfasi
eccessiva. In fondo si tratta di piccole cifre, in un paese che ha buttato
decine di miliardi in grandi opere inutili e/o incompiute. Quello che è sparito
con le generazioni non è il talento, ma il rispetto per il proprio lavoro.
Ronconi pensava che il teatro fosse un gioco da prendere sul serio, necessario
alla società. Oggi perfino chi ci lavora è rassegnato a vederlo come qualcosa
di superfluo, un vizio privato per perdere soldi, una forma raffinata di
ludopatia. Quando al contrario è una medicina per curare una delle malattie
sociali più diffuse e pericolose, la solitudine. Un Ronconi di oggi andrebbe a
lavorare all’estero, ma quello di ieri non l’avrebbe fatto in silenzio, avrebbe
protestato, sarebbe salito sulle barricate. Non è una differenza da poco.
Curzio Maltese – Contromano – Il Venerdì di La Repubblica – 8
settembre 2017 -
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