Tutto Comincia Con un elicottero che si schiuma sulle
rocce. Siamo in Iraq, nell’agosto del 2014. Non precipita per caso, ma perché
in ragazzo di nemmeno vent’anni, quando lo vede decollare, si mette a correre
come un matto per raggiungerlo e aggrapparvisi, con forza illogica e cieca; una
manovra che sbilancia l’elicottero fino a farlo schiantare. In quell’incidente
muoiono tre persone: il ragazzo che voleva scappare e due passeggeri. Solo uno,
Mirza Dinnayi, si salva, uscendone con una gamba rotta. Lui è in Iraq come medico
volontario: un modo per aiutare il suo Paese, dopo che negli anni ’90 lo aveva
lasciato per andare a lavorare in Germania. Dopo la guerra, la fine di Saddam e
l’escalation di Al Qaeda, Mirza aveva preso a fare avanti e indietro tra la
Germania e l’raq per dare una mano ai vecchi compatrioti: un volontariato
comprensibile, il suo, quasi scontato, che però, da un certo punto in poi, non
è bastato più, né alle persone che voleva aiutare, né a lui. È successo quando
in Iraq, dissolta (o quasi) Al Qaeda, è arrivato l’Isis: gruppi diversi, modi
di agire diversi ma stessi orrori, anzi peggio. A quel punto, la sola
assistenza sanitaria non bastava più: si trattava di prendere la gente e di
portarla via, altrove, lontano da lì e dalle torture delle Bandiere Nere. All’Iraq
(e soprattutto agli Yazidi, un ceppo curdo di fede zoroastriana, preso di mira
più di altri dallo Stato Islamico) serviva una specie di Schindler: che vedesse
che contro di loro era in atto un genocidio e che provasse a salvare più
persone possibile. “Ho fondato associazione che si chiama Ponte aereo con
l’Iraq”, racconta Dinnayi quando lo incontriamo alla Euic, l’Università dei
diritti umani di Venezia. “All’inizio, diciamo dal 2007 al 2014, prendevamo i
bambini feriti a causa della guerra e li portavamo in Germania; li curavamo, li
rimettevamo in sesto e dopo qualche settimana li riportavamo indietro. È stato
un bellissimo progetto. Ma poi non è stato più sufficiente”. Nel 2014 nei
villaggi Yazidi è arrivato lo Stato Islamico e tutto è cambiato: sono
cominciate uccisioni di massa, torture, rapimenti stupri di gruppo, sevizie di
ogni tipo sui giovanissimi. I maschi venivano trasformati in soldati, le
femmine in schiave sessuali: “Anche se allora non lo sapevo, era da
quell’orrore che il ragazzo dell’elicottero stava disperatamente provando a
fuggire. Era da quella furia omicida e cieca che bisognava salvare le persone”.
Dopo l’incidente, con la gamba ingessata, Dinnayi ha passato la convalescenza
viaggiando ovunque potesse, chiedendo a chiunque volesse ascoltare aiuto per
portare in salvo quelle persone disperate. “Ho bussato, a decine di porte, fino
a quando il land tedesco di Baden-Wurttemberg non mi ha ascoltato e aiutato a
creare un programma di espatrio e accoglienza per tutti gli Yazidi che si potevano
ancora mettere in salvo. Abbiamo cercato i pochi che erano scappati all’Isis e
li abbiamo inseriti nel nostro programma. Ora vivono in Germania, sono
residenti, hanno una casa, un lavoro, vanno a scuola e conducono una vita il
più normale possibile. Non è stato facile, anche perché per la legge irachena
una donna o un minore non possono espatriare senza l’autorizzazione di un
parente maschio adulto. Ma quasi tutti i maschi adulti Yazidi sono morti, così
abbiamo dovuto ottenere un permesso speciale”. Dal 2014, Dinnayi ha fatto
arrivare in Germania 1.1oo Yazidi, quasi tutti bambini: “Le cure di cui hanno
bisogno sono principalmente di tipo psicologico, che soprattutto con i bambini
funzionano. È come se qualcosa in loro si fosse rotto per sempre. Forse, un
giorno, dimenticheranno e avranno un futuro normale”.
Luciana Grosso – Rifugiati – Donna di La Repubblica – 2
settembre 2017 -
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