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lunedì 4 settembre 2017

Lo Sapevate Che: L'Ultimo valzer con mio papà...



Ci sono le feste comandate che travolgono con il loro carico di tradizioni, piaceri e doveri, ci sono i compleanni di cui occorre ricordarsi (ma è diventato più semplice grazie a Facebook, che si insinua nelle pieghe del nostro calendario) e poi ci sono gli anniversari, Ognuno celebra il suo 23 anni dalla sera in cui si siamo baciati, 3 dal giorno in cui sono andato in pensione, 5 dalla firma del contratto di assunzione, 14 dal trasloco nell’appartamento al sesto piano senza ascensore. Ma ci sono anche gli anniversari tristi, quelli che tolgono il fiato, che si vorrebbero saltare a piedi uniti, che ci scaraventano altrove in un tempo sospeso di incredulità e smarrimento. Son trascorsi cinque anni dalla morte di mio padre. Se n’è andato troppo presto, nel mezzo di una giornata di sole, in una stanza di ospedale che si affaccia sulla chioma sempreverde di una magnolia e su un cielo talmente azzurro e brillante da bruciare gli occhi. Non ho bisogno di date per pensare a lui. Da quando non è più qui la sua presenza si è fatta quotidiana e prepotente nei miei gesti, nelle mie idee, nella forma delle mie mani, nello sguardo dei miei figli, nelle parole che pronuncio, nelle scelte che compio, nelle domande che mi faccio e nelle risposte che mi do. Qualche tempo fa, dentro un sogno, ero in cucina e avevo appena buttato la pasta quando è comparso lui che, con quell’umorismo sghembo e surreale che lo rendeva ai miei occhi irresistibile, mi ha chiesto di ballare un valzer. Ci mettemmo a volteggiare tra tavolo e fornelli, cantando Ciribiribin, finché gli spaghetti non furono scotti e immangiabili. Per la prima volta mi sveglia ridendo dopo una sua incursione nel mio sogno. Eppure ogni anno quando si avvicinava quel giorno di cui ricordo ogni dettaglio, il vuoto della sua assenza si fa voragine e le mancanze con cui ho imparato a convivere tornano laceranti e insopportabili. Così, ogni volta, per un istinto di autoconservazione che riaffiora prepotente mi ritrovo a cercarlo affannosamente intorno e dentro di me perché ho bisogno della conferma o dell’illusione che sia ancora qui. Quest’anno ho fatto lo stesso: ho tastato e annusato la sua giacca nell’armadio perché i sensi che meno transitano dalla ragione sono i più vividi ed evocativi. L’ho rivisto seduto sul divano a righe, con il braccio allungato sullo schienale per accogliermi, in un incastro di teste, spalle, tenerezza e complicità che mi ha insegnato da piccola e che ci rappresentava. Mi sono messa in ascolto della sua voce, del timbro della sua risata, dell’intonazione sghemba delle canzoni che inventava per noi. L’ho improvvisamente sentito in una conversazione telefonica: “ Ehi! Tutto bene, Ciccetti?”. Così chiara e nitida da sembrare vera, su un filo di rame invece che immaginario. Talmente reale da esigere un seguito, una risposta, un’interazione. Cosa dicevo io, allora, quando squillava il telefono e all’altro capo c’era lui? Quali parole usavo? Con quali nomi lo chiamavo? Con quale voce gli raccontavo di me? È calato un gran silenzio. Per la prima volta l’assente ero io. In questi cinque anni ho pervicacemente alimentato la sua memoria. Perché era lui che non potevo perdere. In cinque anni si dimenticano molte cose. Io ho dimenticato il nome che avevo per lui in quelle nostre conversazioni, i fatti che gli raccontavo, le scemenze con cui lo facevo ridere, la tenerezza con cui mi congedavo da lui. Mi sono impegnata a conservare lui ma non la nostra interazione, non la forma del nostro rapporto, non la fotografia di me stessa acciambellata nell’incavo del suo braccio su un divano a righe. Forse non è troppo tardi per salvare me e noi dalle fauci voraci del dimenticatoio. Eppure ancora non trovo la voce di Ciccetti, di qua da quel filo.
Claudia de Lillo – Donna di La Repubblica 2 settembre 2017 -

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