Ci sono le feste comandate che travolgono con il loro carico di
tradizioni, piaceri e doveri, ci sono i compleanni di cui occorre ricordarsi
(ma è diventato più semplice grazie a Facebook, che si insinua nelle pieghe del
nostro calendario) e poi ci sono gli anniversari, Ognuno celebra il suo 23 anni
dalla sera in cui si siamo baciati, 3 dal giorno in cui sono andato in
pensione, 5 dalla firma del contratto di assunzione, 14 dal trasloco
nell’appartamento al sesto piano senza ascensore. Ma ci sono anche gli
anniversari tristi, quelli che tolgono il fiato, che si vorrebbero saltare a
piedi uniti, che ci scaraventano altrove in un tempo sospeso di incredulità e
smarrimento. Son trascorsi cinque anni dalla morte di mio padre. Se n’è andato
troppo presto, nel mezzo di una giornata di sole, in una stanza di ospedale che
si affaccia sulla chioma sempreverde di una magnolia e su un cielo talmente
azzurro e brillante da bruciare gli occhi. Non ho bisogno di date per pensare a
lui. Da quando non è più qui la sua presenza si è fatta quotidiana e prepotente
nei miei gesti, nelle mie idee, nella forma delle mie mani, nello sguardo dei
miei figli, nelle parole che pronuncio, nelle scelte che compio, nelle domande
che mi faccio e nelle risposte che mi do. Qualche tempo fa, dentro un sogno,
ero in cucina e avevo appena buttato la pasta quando è comparso lui che, con
quell’umorismo sghembo e surreale che lo rendeva ai miei occhi irresistibile,
mi ha chiesto di ballare un valzer. Ci mettemmo a volteggiare tra tavolo e
fornelli, cantando Ciribiribin,
finché gli spaghetti non furono scotti e immangiabili. Per la prima volta mi
sveglia ridendo dopo una sua incursione nel mio sogno. Eppure ogni anno quando
si avvicinava quel giorno di cui ricordo ogni dettaglio, il vuoto della sua
assenza si fa voragine e le mancanze con cui ho imparato a convivere tornano
laceranti e insopportabili. Così, ogni volta, per un istinto di
autoconservazione che riaffiora prepotente mi ritrovo a cercarlo affannosamente
intorno e dentro di me perché ho bisogno della conferma o dell’illusione che
sia ancora qui. Quest’anno ho fatto lo stesso: ho tastato e annusato la sua
giacca nell’armadio perché i sensi che meno transitano dalla ragione sono i più
vividi ed evocativi. L’ho rivisto seduto sul divano a righe, con il braccio
allungato sullo schienale per accogliermi, in un incastro di teste, spalle,
tenerezza e complicità che mi ha insegnato da piccola e che ci rappresentava.
Mi sono messa in ascolto della sua voce, del timbro della sua risata,
dell’intonazione sghemba delle canzoni che inventava per noi. L’ho
improvvisamente sentito in una conversazione telefonica: “ Ehi! Tutto bene,
Ciccetti?”. Così chiara e nitida da sembrare vera, su un filo di rame invece
che immaginario. Talmente reale da esigere un seguito, una risposta,
un’interazione. Cosa dicevo io, allora, quando squillava il telefono e
all’altro capo c’era lui? Quali parole usavo? Con quali nomi lo chiamavo? Con
quale voce gli raccontavo di me? È calato un gran silenzio. Per la prima volta
l’assente ero io. In questi cinque anni ho pervicacemente alimentato la sua
memoria. Perché era lui che non potevo perdere. In cinque anni si dimenticano
molte cose. Io ho dimenticato il nome che avevo per lui in quelle nostre
conversazioni, i fatti che gli raccontavo, le scemenze con cui lo facevo
ridere, la tenerezza con cui mi congedavo da lui. Mi sono impegnata a
conservare lui ma non la nostra interazione, non la forma del nostro rapporto,
non la fotografia di me stessa acciambellata nell’incavo del suo braccio su un
divano a righe. Forse non è troppo tardi per salvare me e noi dalle fauci voraci
del dimenticatoio. Eppure ancora non trovo la voce di Ciccetti, di qua da quel
filo.
Claudia de Lillo – Donna di La Repubblica 2 settembre 2017 -
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