Napoli. Come ogni lunga storia che si
rispetti anche questa ha qualcosa di leggendario. Era il 1737, Ferdinando di
Borbone chiamava a corte il più famoso maestro guantaio dell’epoca, Luigi Balastron,
e a Napoli cominciava a mettere radici un distretto dei guanti di pelle capace
di diventare la prima industria della città nell’Ottocento e, successivamente
per 25 mila artigiani sparpagliati negli storici quartieri Sanità e Materdei.
Di questa tradizione gloriosa, accompagnata da un doveroso corredo d miti, oggi
però resta ben poco, se non la strenua resistenza di una decina di aziende a
conduzione famigliare che, da sole, riescono a scongiurarne l’estinzione.
Tramandandola di padre in figlio hanno dribblato, l’una dopo l’altra, la
dispersione della manualità spazzata via dalla rivoluzione tecnologica, la
concorrenza asiatica, la crisi economica e anche la tentazione di andare a
produrre oltreconfine, nei Paesi dell’Est Europa, per abbassare i costi. “Prima
è arrivata la concorrenza cinese, poi si sono accodati filippini e pachistani”
dice Mauro Squillace, titolare dell’azienda Omega, nata nel 1920, otto
dipendenti e venti collaboratori esterni. “Qualcuno, per restare sul mercato,
ha trasferito la produzione all’estero, inseguendo grandi numeri e manodopera a
prezzi bassi ma rinunciando alla tradizione. Così a difendere un’arte che
richiede 25 fasi di lavorazione a mano siamo rimasti in pochi. Quei pochi sono
i guantai napoletani sopravvissuti non solo alla globalizzazione ma anche alla
corsa al posto fisso – nella pubblica amministrazione o nella grande industria
– dei tanti lavoratori del distretto che, fino agli anni Settanta, nelle loro
abitazioni, tagliavano e cucivano pellami per confezionare guanti da esportare
in tutto il mondo. Sono loro adesso in trincea contro un’importazione massiccia
(29 milioni di paia nel 2016, contro i 4,1 della produzione made in Italy) e
contro l’assenza di scuole di formazione dove reclutare manovalanza specializzata,
continuano a trasmettere le competenze accumulate generazione dopo generazione,
dal taglio delle pelli rigorosamente con le forbici, alle ultime cuciture a
mano delle finiture decorative. Sono riusciti a superare anche la rapida morte
del Consorzio, nato nel Duemila con il marchio Napoli Guanti, che avrebbe dovuto
rilanciare le vecchie consuetudini manifatturiere. Associava, all’inizio,
undici imprese, con tanto di brochure istituzionali, una presidente docente di
Teoria e politica dello sviluppo economico all’Università Federico II, un piano
di partecipazioni alle principali fiere internazionali. “Ma molte aziende hanno
cessato l’attività, mentre altre hanno delocalizzato all’estero: tempo dieci
anni e l’esperienza del consorzio era conclusa” ricorda Enzo Gargiuolo,
direttore della Cna di Napoli. La sponda, per gli irriducibili di un mestiere
che richiede ben più dei tre anni di apprendistato previsti dalla legge, è
arrivata dai tanti turisti stranieri – soprattutto americani e inglesi, che
tuttora visitano gli storici laboratori artigianali del guanto in pelle - e,
soprattutto dal mercato del lusso. Sono i clienti che, in cerca della qualità,
non badano ai prezzi. I grandi nomi si sprecano. Si va dalle maison come Louis
Vuitton, Chanel e Dior, ai membri della famiglia reale inglese. “Riforniamo
politici e diplomatici dell’Onu come Staffan De Mistura” dice Squillace. “E poi
scrittori e registi, da Ferzan Ozpetek a Ermanno Rea e Paulo Coelho”.
Produzione di nicchia, perché quella su scala industriale di tre generazioni
fa, quando un’azienda riusciva a confezionare anche 400 mila guanti all’anno, è
solo un ricordo. Però tra i circa mille lavoratori dell’indotto è ancora
possibile imbattersi in lavoranti specializzate nella sola cucitura delle
fodere. A riprova di quanto sia ancora forte una memoria artigiana che, non a
vaso, si è sviluppata nella regione dove si trova un altro storico polo
produttivo complementare, quello dell’industria conciaria, cuore a Solofra,
nell’Avellinese, 165 aziende, una produzione di altissima gamma del valore di
440 milioni destinata anch’essa al mercato del lusso, per i 50 per cento
all’estero. Le ultime guanterie rimaste esportano molto. Vanno negli Stati
Uniti, in Canada, nel resto dell’Europa. Arrivano fino in Cina. “Ma facciamo
tutto da soli, con le istituzioni c’è poco feeling” racconta Giuseppe Labonia,
amministratore dell’omonima azienda di famiglia, costituita nell’immediato
Dopoguerra. “Ho 15 dipendenti. Tre anni fa erano 44, li ho formati sempre e
solo io. Gli enti locali? Difficile fare progetti, rallentano tutto con la
burocrazia. L’orgoglio lega gli ultimi protagonisti di questo pezzo di storia,
non solo economica, di Napoli. “I guanti che vengono prodotti in Cina, in
Pakistan o nelle Filippine” sottolinea Sandro Temin, titolare dell’azienda che
oggi porta il suo nome e che fu fondata dal padre nel 1929, “non hanno nulla a
che vedere con la nostra produzione che richiede addetti specializzati per ogni
fase di lavorazione. Il prodotto di qualità si trova a Napoli”. Temin produce
circa ventimila guanti all’anno. Vorrebbe una scuola per allevare i giovani
maestri artigiani e dare un futuro al distretto. “In passato abbiamo istituito
dei corsi ma è stato un flop” conclude. “Anche le istituzioni sono indirizzate
solo verso la formazione sull’uso delle nuove tecnologie”.
Natascia Ronchetti – Economia – Il Venerdì di La Repubblica –
8 settembre 2017 -
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