“Sono rifugiato, ho tutto in regola, ti
faccio vedere?”. Un ragazzo eritreo arrivato a Lampedusa nel 2002, estrae dal
portafoglio il documento di rifugiato politico che ha dal 2006. Sono le 22 a
piazza Indipendenza, centro di Roma, e sta per iniziare la quarta notte
all’aperto per qualche centinaio di rifugiati eritrei. Un sabato mattino di
fine agosto le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nello stabile occupato
da quattro anni di via Curtatone, dove abitavano circa 800 persone (250
famiglie), sgomberandole senza preavviso e senza, soprattutto, una proposta
alternativa. Chi non ha trovato riparo da amici dorme in questa piazza. L’odore
di zighini (piatto tipico eritreo) è forte. Dal vicino ristorante alcuni
connazionali hanno portato la cena a chi sta per affrontare la notte
all’aperto. Come sempre avviene quando mi ritrovo in contesti dove c’è poco da
mangiare, mi viene offerto del cibo. Il ragazzo che mi parla in realtà avrebbe
preferito vivere in Inghilterra, ma avendo lasciato le impronte digitali in
Italia, dopo aver provato la strada inglese, è stato costretto a tornare qui.
Quando gli chiedo che lavoro fa, di nuovo mi chiede “vuoi vedere?”, e scopre la
spalla mostrandomi una cicatrice. È la cicatrice del bibitaro, mitologica
figura da stadio deputata a guadagnarsi la giornata in costante dialettica con
la pancia del tifoso di calcio, sollecitata tanto da fame e sete, quanto
dall’andamento della partita fino a forme di prepotenza e razzismo. Tutte le
sue parole spiegano come essere rifugiato in Italia non voglia dire nulla di
più che avere un documento buono da mostrare alla polizia in caso di fermo. Una
ragazza di 26 anni, a mani giunte, rafforza il concetto. “Vi posso fare una
domanda?” chiede a me e ad una responsabile Unhcr. “Perché l’Italia ci dà i
documenti da rifugiato se poi ci tratta così?”. A tamponare il suo risentimento
qui ci sono solo giornalisti e Ong. Di politici e istituzioni non c’è e non ci
sarà ombra. “Alle mie amiche in Francia e Germania hanno dato posti dove
dormire, corsi di lingua, soldi, integrazione. Qui, stiamo in mezzo alla
strada. E non ce ne possiamo andare perché abbiamo lasciato le impronte”. Non
sa ancora quella ragazza che, dopo un’altra giornata di proposte prive di
logica e rispetto per chi qui manda a scuola i figli e sa di avere il diritto
internazionale dalla propria, all’alba arriveranno idranti e manganelli a
sgombrare gli sgomberati, spazzando via lei, i suoi connazionali (tra cui
donne, infermi e anziani) e ogni forma di resistenza, dalla più innocua alla
più pericolosa. Purtroppo per molti, nonostante tutto, non si volatilizzeranno nemmeno
così. È gente tosta. Per venire da noi ed essere trattati così hanno superato
il peggio.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di La
Repubblica – 1 Settembre 2017 -
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