Un Mio Amico aveva due canarini. Petunia e
Sandrino. Vivevano in una gabbia né grande né piccola, e ogni mattina cantavano
per lui. Un giorno decise di offrire loro la possibilità di andarsene e aprì la
porticina che li teneva prigionieri. “Siete liberi!”, esclamò mostrando loro
quello scorcio di orizzonte senza sbarre. Loro si guardarono, lo guardarono e
rimasero immobili per un po', perplessi e confusi. Poi arretrarono verso la
parete più interna e protetta del loro mondo a righe. Voltando la schiena e le
ali a quella chance di emancipazione. Qualche tempo fa mio marito e io ci siamo
ritrovati un fine settimana soli a casa con il primogenito. I due piccoli erano
al mare con la nonna, e noi abbiamo assaporato l’ebrezza del figlio unico,
nella fattispecie adolescente e latitante. “È ora?”, ci siamo domandati sabato
pomeriggio, in preda alla vertigine, quando il virgulto è uscito comunicandoci
che sarebbe rimasto a dormire da un amico. Avremmo dopotutto concederci una cena
fuori, a base di pesce e romanticismo spinto, trasgredire al cinema con due
spettacoli consecutivi o magari tre, incontrare gli amici per una serata di
sfrenata e nostalgico trasgressione. Avremmo potuto, come Petunia e Sandrino,
abbandonare il porto sicuro di casa per spingerci fuori, nel mondo. “Boh”, ci
siamo risposti con lo sguardo vitreo e incredulo dei canarini. “Potremmo
chiamare…è una vita che non li vediamo”. “Io uscirei con… abbiamo milioni di
cosa da raccontarci”. “Ci sono anche…”. “E, perché non…”. Per un po' abbiam oscillato
dentro e fuori dall’uscio, snocciolando nomi, possibilità, consci
dell’importanza di giocarci bene quella carta preziosa. “Certo, volendo
potremmo cenare sul terrazzino, tu e io”. “E dopo vederci un numero insensato
di episodi di una serie televisiva a caso”. “Mi sembra un programma
fantastico”. “Mò! Ce bellèzza”, ha
concluso lui, che quando è felice si riappropria delle radici baresi. E abbiamo
fatto come Petunia e Sandrino: abbiamo scelto la riposante sicurezza delle abitudini,
unita all’inebriante e insolita esperienza della solitudine. È stato bellissimo
e memorabile, ma mi sono domandate perché, tra tutte le creature, abbiamo
scelto di somigliare ai canarini. Un tempo ero una indefessa socializzatrice.
Avevo centomila amici e riuscivo a frequentarli tutti. La mia identità passava
attraverso di loro. Da loro traevo idee, linfa, entusiasmi, equilibrio e
felicità. Sognavo un co-housing, con la cucina e il ping-pong in comune.
Immaginavo relazioni fluide, genitorialità condivisa, legami indissolubili. A
quel tempo gli amici erano necessità e urgenza, e una vita comunitaria era
l’unica possibile. In teoria ci credo ancora, almeno un po'. In teoria sono
ancora convinta che gli amici siano un bene inestimabile, che incontrali sia un
dovere oltre che un piacere, e una forma di arricchimento imprescindibile. Ma perché nella pratica mi sono ripiegata su
una quotidianità domestica e lavorativa che non lascia spazi a niente, se non
ai doveri primari in cui l’amicizia non sembra contemplata? Perché mi struggo
nel ripensare alla vorticosa giostra di relazioni che mi coloravano la vita, ma
quando si apre una porta e potrei risalirci anche solo per una sera, arretro
alla ricerca dell’intimità di un tavolino per due sul balcone? È colpa dei
figli? Dello sfinimento? Della pigrizia? Delle priorità di due tizi che si
dicono coppia ma somigliano di più a soci di un’impresa? Del nostro
solipsistico inaridirci? Non ho risposte, ma solo disagio e nostalgia per quei
due socializzatori indefessi e mondani. E un certo malinconico struggimento per
Petunia, Sandrino e quelli come loro.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 9
settembre 2017 -
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