Fu una scatola di plastica Tupperware, piena di baby
topolini che squittivano disperatamente in un supermarket “Tutto per gli
animali, a far sorgere in Jessica Pierce il dubbio. Quando chiese al cliente
che comperava topini a che cosa gli servissero e si sentì rispondere che erano
il cibo per il serpente che gli teneva compagnia in casa, Jessica, dottoressa
in bioetica, si domandò: perché quel rettile deve avere il diritto di mangiarsi
i topi? Chi aveva stabilito che esistesse una gerarchia alimentare fra quei
piccoli, innocui roditori e la biscia?
La risposta era ovvia: l’aveva decisa un essere umano, giudice e arbitro
supremo di vita e di morte tra le diverse specie in cattività. Da quella
risposta, come da tutte le risposte, sgorgano una serie di domande che andarono
a formare una nuova disciplina accademica, chiamata antrozoologia, dedicata
allo studio delle relazioni fra l’uomo e gli animali. E che ora sta toccando un
terreno emozionalmente radioattivo: il rapporto fra noi e i nostri “amici”
domestici. Gatti, cani, rettili, uccelli, pesci e qualsiasi altra forma di vita
animale con la quale decidiamo di convivere. La scelta d “comprare” un cane, di
“adottarlo”, di “custodirlo” come si dovrebbe ormai dire secondo leggi che
sempre più garantiscono ai nostri compagni trattamenti non soltanto umani, ma
da umani, è una decisione seria. In 32 dei 50 Stati americani, le violenze
contro gli animali domestici sono equiparate a quelle contro un membro della
famiglia e punibili di conseguenza. Dopo l’uragano Katrina, quello che sventrò
New Orleans, mio figlio Guido, che all’epoca lavorava come assistente
legislativo di un potente deputato, lo convinse a far approvare una legge che
impone ai soccorritori di salvare anche gli animali domestici. Questa
umanizzazione di cani, gatti, creature varie è un fenomeno moderno, esploso non
soltanto con la letteratura, il cinema, i fumetti, ma con l’urbanizzazione.
Poco più di un secolo fa, il Comune di New York non ci pensò due volte a
rastrellare 760 cani randagi, chiuderli in un gabbione ferrato e annegarli
nell’Hudson, Ci provasse adesso, il sindaco Bill de Blasio sarebbe lui chiuso
in gabbia e buttato nel fiume. Ma la “antropomorfizzazione” del simpatico
Fluffy o del caro Buddy ha creato un problema profondo: se anche gli animali
sono gente, alla quale parliamo, che ascoltiamo, che il 20% di noi ama più del
proprio compagno e il 9% addirittura più dei figli, non possiamo poi tornare a
trattarli da proprietà personale soggetta alla nostra volontà. Sono un milione
e mezzo i cani che ogni anno devono essere messi a “dormire” perché abbandonati
in rifugi senza speranza. È un dilemma che disturba i sonni di un “”industria
dell’animale da compagnia” da 66 miliardi di dollari all’anno e scuote la
sicurezza di un rapporto di dipendenza, spesso reciproca, fra uomini e animali.
Ma quei 150 milioni fra cani e gatti soltanto in Usa (ed escludiamo dal conto
canarini, pappagallini, pesci da acquario, tartarughe e varie) non possono
essere liberati senza straziare il cuore dei loro “custodi” e senza mettere a rischio
la loro vita e quella di altre creature. Dubito, per esperienza di famiglia,
che i dilemmi posti dalla nuova disciplina dell’antrozoologia dissuaderanno
bambini dal volere un cane, quelli del “mamma ce ne occupiamo noi”, persone
sole, anziani, malati dalla consolazione di un cucciolo ansimante al proprio
fianco con la lingua penzoloni. Ma la questione è aperta: dove sta scritto che
un serpente abbia diritto di mangiare un topo che non può difendersi perché
comprato in un supermercato? E noi umani siamo moralmente superiori al serpente
al qual verrà servito un altro animale comprato come cibo?
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 2
settembre 2017 -
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