Sono Tra Quelli che si commuovono, che piangono
guardando un film o la pubblicità progresso, che cascano in ogni trappola
retorica. Sono tra quelli a cui la voce si rompe spesso. Adoro le vite degli
altri tanto che mi piacerebbe entrarci dentro, magari un giorno al mese, per
contratto. Pendo dalle labbra di chi mi racconta di torbide passioni, di
rivoluzioni domestiche o lavorative, di sogni realizzati, di scommesse
dall’esito incerto. Ho la tendenza a immedesimarmi, a cadere vittima di
transfert rapiti e sognanti, a indossare i panni altrui anche senza permesso.
Eppure con loro non mi era mai successo. Con i miei figli non mi ero ami
identificata prima d’ora. Forse perché l’amore per loro è già abbastanza
prepotente e feroce e intrusivo e capillare per lasciare spazio ad altre forme
di simbiosi. Forse perché erano tutti e tre piccoli, oltre che maschi, e
vestivano panni troppo diversi dai miei. Forse perché abitavano il territorio
incantato e aspro dell’infanzia, dove gioie e drammi parlano lingue aliene,
dove il tempo è un punto e non una linea, dove il centro del mondo sta comodo
in un piccolo ombelico. Per loro ho palpitato, tifato, gioito, sofferto e
sognato. Ma in loro non avevo mai vissuto. Fino a ora. Mio figlio maggiore ha
14 anni, e dell’adolescenza, oltre che lo stordimento, l’indolenza e
l’umoralità, quest’estate ha vissuto le sfrenate emozioni. Ha scoperto nuovi
pianeti, ha esplora nuove frontiere, ha trovato nuovi amici, ha sperimentato
nuovi talenti, ha incontrato un amore, folgorante e definitivo come ogni amore
quattordicenne che si rispetti, ha vissuto il lacerante struggimento di una
separazione. Avevo mantenuto i nervi saldi di fronte alla scomparsa di Lino,
l’orsacchiotto transizionale fondamentale per il sonno del primogenito allora
3enne. Ero rimasta lucida quando, a 2anni, il medio aveva buttato il ciuccio
nella spazzatura per poi pentirsene a distanza di 48 ore. Non mi aveva turbato
la minaccia del numero tre, che annunciò che non sarebbe mai più andato a
scuola. Nessuno dei loro languori era stato il mio, per nessuna delle loro
battaglie avevo indossato la loro armatura. Poi è arrivato lui, con le sue
spalle larghe da uomo, il suo sguardo sgranato verde e blu di bambino, il suo
candore ruvido, la sua spacconeria irritante, i suoi interrogativi disarmanti.
Ha detto: “Sono cambiato”. Ed era vero. E il suo struggimento è diventato il
mio. Perché l’infanzia è un ricordo magico e nebbioso dietro una porta che
abbiamo chiuso da tempo. Ma l’adolescenza è una memoria vivida, è una stanza
chiassosa in cui ogni tanto rientriamo, è una parte terrificante di noi a cui
restiamo indissolubilmente legati, un piccolo fuoco pazzo che non si estingue
nemmeno sotto il temporale. Un adolescente innamorato è uno spettacolo ipnotico
ed estenuante, come il riflesso impetuoso dentro uno specchio magico. Nella
nostalgia settembrina ho visto un biondino di Piacenza che mi baciò in agosto e
mi lasciò in ottobre, un piccolo pescatore eoliano dagli occhi verdi di xui
ancora conservo la foto, la fine di un’estate come la fine del mondo. E, come
nei videogiochi, sono passata a un livello successivo. Perché oggi, come ieri,
devo contenere, sgridare, educare, reprimere e accompagnare. Ma ogni tanto, o
spesso, mi ritroverò nei tormenti di mio figlio, nelle sue gioie sfrenate e nei
suoi tunnel sgangherati. Mi capiterà di riconoscerli e di riconoscermi. Allora
annegherò nell’empatia. Ma gli dirò che non importa, che poi passa, che la deve
smettere, nella consapevolezza mia e sua che, da una parte e dall’altra della
barricata, come spesso accade, siamo tutti uguali.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 16
settembre 2017 -
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