Giuseppe Ermini e Guido Gonella, Luigi Gui e Giovanni
Spadolini. Franca Falcucci e Francesco D’Onofrio. E Luigi Berlinguer, Letizia
Moratti, Giuseppe Fioroni, Maria Stella Gelmini, Francesco Profumo…Personaggi e
stagioni diverse, ma con due cose in comune: sono stati tutti ministri della
Pubblica istruzione e tutti hanno presentato una loro riforma della scuola e/o
dell’Università. Certo, alcune sono state epocali: i nuovi programmi delle
elementari, la scuola media unica, la fine dell’avviamento professionale,
l’obbligo fino a 14 e poi a 16 anni. E
però non c’è stato personaggio chiamato a quel dicastero che non abbia sentito
l’esigenza di rimettere mano a ciò che era stato fatto prima, di dire la sua,
di lasciare il segno. Intendiamoci, nella scuola c’è sempre un guaio immediato
cui porre rimedio: le aule a pezzi,; i pochi soldi; le graduatorie dei
professori; i supplenti e i trasferimenti; le attrezzature e i bidelli; e un
esercito di precari in perenne attesa di posto fisso. (..). Ora, con precedenti
così illustri poteva mancare la professoressa Stefania Giannini, glottologa e
linguista, ministra pro tempore dell’Istruzione, della ricerca e
dell’Università? Certo che no. Ed ecco dunque anche la sua proposta, licenziata
dal consiglio dei ministri, ma tutt’altro che operativa: il governo si è preso
infatti un anno e mezzo per mettere a punto i quattordici decreti delegati con
i quali le idee si faranno norme. Si annuncia, poi si vede. (..). E’ Vero, E’Presto per trinciare giudizi, ma certo non si può ignorare che proprio
l’autonomia ha finito per complicare e peggiorare la vita delle università dove
il sistema è già stato ampiamente rodato con un certo insuccesso. Caricare poi
sulle spalle di un preside una tale mole di responsabilità non sembra fare i
conti con la realtà della scuola dove certo brilleranno pure un po’ di
professori-manager, ma ci sono anche docenti capaci di insegnare e non di
amministrare un condominio. (..). E Si Potrebbe continuare. Con il sospetto –
fino a prova contraria – che anche stavolta si è nascosta una pur concreta,
immediata e decisiva questione di posti
e di stipendi con l’ennesimo vasto programma di riforma che chissà quando e se
arriverà. Forse si potrebbe sfruttare questo anno e mezzo che il governo si è
preso per chiedersi finalmente e nelle sedi giuste che cosa diavolo si vuole
ottenere da questa benedetta scuola. cioè che cosa insegnare, quali studenti
formare, come dare spazio al merito e battere la clientela, come far sì che all’Università
arrivino studenti che sappiano parlare e scrivere in italiano (chiedere
conferma a qualunque professore d’università) e ne escano dottori capaci di
insegnare ai giovani di domani. Non è poca cosa, stiamo parlando delle basi
della civiltà e della cultura, cioè della democrazia. Appena sbarcarono in
Italia per liberarla dal fascismo, gli americani si preoccuparono di due cose
prima di ogni altra: aprire giornali liberi e rifare daccapo i programmi della
scuola. Chissà perché nel Bel Paese di queste due cose, garantire la libera
informazione e procurarsi una scuola efficiente, si parla si parla si parla, ma
poi non si fa mai granché.
Bruno Manfellotto – Questa settimana – www.lespresso.it - @bmanfellotto
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