Schivo, antieroico,
all’apparenza remissivo, ma caustico era l’antitesi dei cliché partenopei. A
vent’anni dalla morte prematura, un grande scrittore suo conterraneo ricorda Massimo Troisi
“Le cose o si fanno il
giorno dopo
O non si fanno affatto
Voi diete in tanti a
scrivere e io sono solo a leggervi: così Massimo Troisi spiegava col sorriso lo sgomento di un
lettore davanti alla vastità della produzione letteraria.
Lo scrittore, categoria commerciale alla quale partecipo quando
non sono lettore, si trova spesso in una sala davanti a persone venute per
ascoltare. Si trova al centro dell’attenzione di orecchie ben disposte, che si
sono spostate da casa, che hanno interrotto le loro attività per venire
all’incontro.
Guai a lui se crede che sia quello il rapporto tra chi scrive
e chi legge: lui sul podio e gli altri a fare pubblico. Il vero rapporto tra
lettore e scrittore non si svolge in un appuntamento letterario. Sta invece
nella libreria, dove gli scrittori sono la folla e il lettore è l’autore della
propria scelta tra di loro. In libreria il lettore passa in rassegna banconi e
scaffali dove gli scrittori con i loro libri sono ammucchiati in ordine
alfabetico, come a scuola, o alla rinfusa come dal rigattiere.
Voi siete in tanti a
scrivere e io sono solo a leggervi, questa battuta di Massimo Troisi fissa il giusto rapporto
tra lettore e scrittori. A venti anni dalla sua continua mancanza, restano
incise nel labirinto dell’orecchio alcune sue battute, le sue miti e ammaccate
prese in giro.
San Giorgio a Cremano, dov’è nato, è un centro vesuviano che
sta sulla linea Napoli Portici, prima ferrovia d’Italia al tempo in cui gli
Svizzeri facevano gli emigranti a Napoli, lavorando da cuochi, pasticcieri,
orologiai. Sotto la verticale del cratere San Giorgio a Cremano appartiene alla
catena mondiale degli abitanti di azzardo. Hanno in comune l’alzata gli occhi
al cielo non per richiesta di raccomandazione, ma per richiesta di minaccia.
Risentono di una comune inferiorità fisica a ridosso dell’immenso, che infiltra
allarmi nel sistema nervoso. I vulcani collegano il sottosuolo al cielo.
Massimo Troisi è un Vesuviano, denominazione che contiene
Napoli e dintorni. La sua voce remissiva, nasale, da adenoidi, è priva di
qualunque sfumatura di aggressività. E’ perciò opposta, nel modo più militante,
a quella del guappo, del soldato di camorra, figura dominante sotto il Vesuvio negli anni Ottanta. Il conflitto
militare tra la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e il resto della
malavita fatturava centinaia di ammazzati all’anno. Circolava anche la tariffa
a buon mercato per un omicidio:500 mila lire (250 euro). La battaglia
proseguiva dentro le prigioni: durante il terremoto dell’80 a Poggioreale il
mattatoio raggiunse anche l’infermeria.
A contrasto della cronaca infame si agitava il prodigioso
piede sinistro di un argentino arrivato a Napoli come risarcimento per i
milioni di nostri sbarcati a Buenos Aires. All’attivo c’era qualche musicista,
esorcista del diavolo in corpo alla città, che usava lo stesso terreno di gioco
per i suoi concerti.
E c’era Troisi con il suo tiro La Smorfia, scomposto più che
composto da De Caro e Arena. Quei suoi primi testi facevano ridere perché si
addossavano le debolezze, le omissioni, le vigliaccherie di un popolo sotto
ringhio di sottosuolo e di camorra.
Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto grazie
all’America del Sud, alcuni rappresentanti del movimento separatista sub
elvetico esposero uno striscione che assegnava al Napoli lo scudetto del Nordafrica.
In televisione all’epoca c’era la qualità eccellente di giornalisti come Gianni
Minà che andò a intervistare Troisi sullo scudetto vinto. Alle domande di un
suo commento su quello striscione, la risposta fu: “Preferisco essere campione
di Nordafrica anziché scrivere striscioni da Sudafrica”. A quel tempo Nelson
Mandela era un terrorista imprigionato a vita e al potere in Sudafrica c’era il
più esplicito razzismo del mondo.
Troisi è stato un solista, anche quando era con Benigni. Non
formarono un duo comico, nessuno era spalla dell’altro. Coincidevano sulla
scena, ma ognuno era per sé. E il per sé di Troisi era per me schiacciante.
Negli anni mi capita di tornare a lui in occasione di vicende
napoletane. Cosa se direbbe, con quale scatto ne uscirebbe? Pure tirando a
indovinare, cercando nella sua scia la battuta adeguata, ammetto puntualmente
che mi manca. Perché non era solo arguzia spiritosa, ma uno scatto sentimentale
sotto la forma della presa in giro. Riconosco in lui l’indignazione, ma quella
che scansa la facile invettiva e si raffina invece in ironia dolente.
Ultimo esempio: raccontò che il capo della Lega Nord
rischiava l’espulsione dal partito perché in casa gli avevano trovato un disco
di Peppino di Capri, con dedica per giunta.
Eduardo eseguì una leggendaria pernacchia, con tanto di
istruzioni per l’uso. Troisi ha sciolto quella pernacchia in pillole
omeopatiche. Invece di scorticare, fanno del bene ai muscoli facciali, stesi
nella gratitudine di un sorriso.
Erri De Luca – Venerdì di Repubblica – 30 maggio 2014 –
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