Temple Grandin,
scienziata e scrittrice affetta da autismo, racconta come funziona un cervello
“diverso”. Ai confini tra malattia e talento
Provate a chiedere a Temple Grandin cosa vede quando dite la
parola “treno”. “Un treno elettrico sulla strada di casa, un altro sulla strada
verso l’aeroporto di Denver, uno della metropolitana che ho preso a New York…”.
Potrebbe continuare all’infinito: Grandin non ha in mente categorie, ma singoli
oggetti in tutti i dettagli, come tante istantanee scattate. “Sono una visual thinker, penso per immagini. Il
mio cervello è come Google: un motore di ricerca con un grande database di
pagine web piene di foto”.
Professore di Scienze animali alla Colorado State University
e progettista di allevamenti studiati a partire dalle sua ricerche sul
comportamento dei bovini, Grandin è stata diagnosticata autistica in un’epoca
(fine anni 40) in cui della sindrome si sapeva pochissimo. I sintomi?
Incapacità di parlare, comportamenti distruttivi, riluttanza agli abbracci e la
mania di usare qualsiasi oggetto come una trottola. Grazie a una mamma “eroica”
che l’ha motivata non isolandola (“mi lasciava fare l’autistica un’ora al
giorno. Il resto della giornata era strutturata e super impegnata”) e al professore
di scienze del liceo che ha saputo sviluppare le sue potenzialità, è diventata
una persona di successo, su cui è stato anche girato un tv movie, Temple Grandin, una donna straordinaria
interpretata da Claire Danes (Golden Globe all’attrice e sette Emmy awards tra
attori e fim).
Nota soprattutto per gli studi sul linguaggio e le emozioni
degli animali, nel suo nuovo libro Il cervello autistico (Adelphi) Grandin si
concentrata su di sé. Il volume compone, con un corredo di aneddoti personali,
documenti scientifici e risonanze magnetiche, una sorta di road map
all’autismo. Negli ultimi anni le diagnosi sono aumentate perché si è ampliato
lo spettro dei sintomi riconosciuti. “Ma la diagnosi dei sintomi”, dice, “è
troppo generica:bisogna cercarne le cause, che sono in massima parte
biologiche”.
Grandin stessa ha capito molte cose grazie al neuroimaging ed è convinta che quanto
più migliorerà questa tecnologia tanto più le valutazioni della malattia
saranno precise caso per caso. “Ci sono differenze innate nei circuiti, che
spiegherebbero le discrepanze nelle abilità e nelle deficienze. Per esempio io
ho una corteccia visiva e alla mia bravura nell’arte e nella progettazione”.
Per contro la sua amigdala, la parte che elabora la paura, risulta molto più grande
del normale. “E ci sono suoni come il ronzio degli asciugamani elettrici o gli
allarmi dell’aeroporto che mi provocano attacchi di panico”.
Le risonanze sono ancora imprecise, ma la scienziata ha
grande fiducia nell’HDFT (High Definition Fiber Tracking), una tecnica di
scansione che segue le fibre cerebrali per lunghe estensioni: Usata per
localizzare i traumi neurologici, tra qualche anno potrebbe essere disponibile
negli ospedali anche per studiare l’autismo e individuare terapie. Un altro
territorio promettente ma poco esplorato, secondo Grandin, è la ricerca
sensoriale: è convinta che le persone autistiche siano molto più connesse col
mondo esterno di quanto appaiono o di quello che pensiamo noi. “Molti bambini
non tollerano di stare in ambienti come mall, ristoranti o supermercati perché
sono ipersensibili agli stimoli visivi o auditivi. loro sistema neuronale va in sovraccarico e
tutte le sensazioni diventano dolorosamente intense. Ci sono troppe
informazioni. Alcuni ricercatori credono che questi non siano problemi reali.
Io rispondo: probabilmente quel bambino nel mall impazzisce perché si sente
come dentro le casse di un concerto rock! Eppure ho visto pochi studi su questo
argomento. Forse perché richiederebbe agli scienziati di immaginarsi mentre
guardano il mondo attraverso un caos neuronale, e non è facile. Dovrebbero
chiederlo ai diretti interessati, perché solo una persona in sovraccarico
sensoriale può dirci cosa prova”.
Con soggetti in grado di comunicare verbalmente,
l’autodescrizione può essere relativamente facile. Ma che fare con chi non
parla? Usate un tablet, suggerisce Grandin, sul quale si può scrivere senza
bisogno di alzare gli occhi dalla tastiera. Grandin ricorda che, quando da
piccola aveva problemi nel dare un senso nei chiacchiericci intorno a lei, a
volte spegneva gli stimoli, isolandosi, altre volte se era letteralmente invasa
e aveva un attacco di nervi. Due comportamenti diversi per un’unica emozione:
“Iporeattività e iperattività potrebbero essere la stessa cosa”, ipotizza.
Anche questo potrebbe avere delle ripercussioni sulla terapia. In genere gli
autistici vengono curati con farmaci che attivano il funzionamento neuronale,
ma a volte non sono la risposta adeguata: “Io prendo antidepressivi da 35 anni
e mi hanno salvato la vita perché mi permettono di dominare l’ansia in
situazioni sociali. Bisogna stare attenti nei dosaggi, soprattutto con i
bambini, ma possono essere molto utili!”. Certo, l’autismo è una patologia di
gravità molto diversa da un caso all’altro e il disturbo di Grandin è tra
quelli cosiddetti “ ad alta funzionalità”, tuttavia lei non ha mai permesso a
questa condizione di definirla. “Le etichette sono utili per ottenere aiuti
come insegnanti di sostegno a scuola, ma pericolose quando diventano camicie di
forza. Io mi considero prima di tutto un’esperta di bestiame, un professore e
una scienziata. E questo vale anche per tutti gli Happy Aspies, gli “Asperger felici”,, i nerd della Silicon Valley
che non si farebbero mai diagnosticare come malati. Magari sono strambi dal
punto di vista relazionale, ma altamente creativi. Non vorrei mai che l’autismo
fosse totalmente cancellato da una cura: Steve Jobs era probabilmente
autistico, e anche Einstein!”.
Grandin crede che la cosa più importante sia intervenire
precocemente. Per questo insiste che i bambini debbano essere forzati a uscire
dalla loro “comfort zone” almeno 20 ore a settimana. “Da piccola mia madre mi
ha insegnato le buone maniere a tavola. Mi faceva fare l’anfitrione alle sue
feste: dovevo aprire la porta, salutare
gli invitati, prendergli i cappotti. Una volta mi mandò a comprare della legna,
esperienza per me terrorizzante. Lei fu inflessibile e io lo feci piangendo
lungo la strada. La volta dopo ero meno spaventata e piano piano le mie
capacità relazionali sono migliorate. A 14 anni pulivo otto stalle al giorno e
davo da mangiare ai cavalli. Perchè anche imparare lavori manuali da piccoli,
verso i 12 anni, è molto importante, dice, “ed è un vero peccato che nelle
scuole si insegni sempre meno a disegnare, tagliare, cucire, costruire,
lavorare con i metalli. Sono abilità utilissime che per molti possono diventare
un lavoro e la strada per una vita gratificante. Vedo troppi bambini lasciati
soli nel loro mondo, a cui non vengono riconosciuti talenti. E’ sbagliato.
Bisogna lavorare sui deficit tanto quanto sui punti di forza. Fateli uscire,
diventare responsabili, preparateli alla vita adulta. I bambini sono spugne:
bisogna riempire il loro database con pagine web di esperienze”.
Mara Accettura – Donna di Repubblica – 7 giugno 2014
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