La perdita della
privatezza
Siamo ossessionati
dalla difesa della riservatezza contro il Grande Fratello che ci osserva e
ascolta. Almeno così sembra. In realtà tutti vogliono farsi vedere. Perché
apparire, anche mostrando il peggio di sé, è l’unico modo per esistere
Uno dei problemi del nostro tempo, che (a giudicare dalla
stampa) ossessiona un poco tutti, è quello della cosiddetta “privacy” – che, a
voler essere molto snob, si può tradurre in volgare italiano come privatezza.
Detto molto ma molto alla buona significa che ciascuno ha diritto di farsi i
fatti suoi senza che tutti, specie delle agenzie legate ai centri di potere, lo
vengano a sapere. Ed esistono istituzioni volte a garantire a tutti la
privatezza (ma, mi raccomando, chiamandola “privacy”, altrimenti nessuno la
prende sul serio). Per questo ci si preoccupa che attraverso le nostre carte di
credito qualcuno possa sapere che cosa abbiamo comprato, in che albergo siamo
scesi e dove abbiamo cenato, Per non dire delle intercettazioni telefoniche,
quando non indispensabili ai fini dell’individuazione di criminali, e
addirittura recentemente Vodafone ha lanciato un allarme per la possibilità che
agenti più o meno segreti di ogni nazione possano sapere a chi telefoniamo e
che cosa diciamo.
Sembra dunque che la privatezza sia un bene che ciascuno
vuole difendere a ogni costo, per non vivere in un universo da Grande Fratello
(quello vero, di Orwell) dove un occhio universale può monitorare tutto quello
che facciamo, o addirittura pensiamo.
Ma La Domenica E’: ci tiene davvero tanto la gente
alla privatezza? Una volta la minaccia alla privatezza era il pettegolezzo e
ciò che si temeva del pettegolezzo era l’attentato alla nostra reputazione
pubblica, e il portare in piazza i panni sporchi che dovevano essere
legittimamente lavati in famiglia. Ma, forse a causa della cosiddetta società
liquida, in cui ciascuno è in crisi di identità e valori, e non sa dove andare
a cercare i punti di riferimento rispetto cui definirsi, l’unico modo di acquistare
un riconoscimento sociale è quello di “farsi vedere”, a ogni costo.
E così la signora che fa commercio di sé (e una volta cercava
di tener celata ai parenti o ai vicini la propria attività), oggi facendosi
magari chiamare “scort” allegramente assume il proprio ruolo pubblico, magari
presentandosi in televisione; i coniugi che un tempo tenevano gelosamente
celati i loro dissidi, partecipano alle trasmissioni “trash” per recitare vuoi
la parte dell’adultero vuoi quella del cornuto, tra gli applausi del pubblico;
il nostro vicino di treno telefona ad alta voce quel che pensa della cognata o
quello che il suo fiscalista deve fare; gli indagati di ogni risma invece di
ritirarsi in campagna sino a che l’ondata dello scandalo non si sia calmata,
aumentano le loro apparizioni, col sorriso sulle labbra, perché meglio ladro
risaputo che onesto ignorato da tutti.
Recentemente Su
“Repubblica” è
apparso un articolo di Zygmunt Bauman in cui si rileva che i “social network”
(massime Facebook), che rappresentano uno strumento di sorveglianza dei
pensieri e delle emozioni altrui, sono sì usati da vari poteri con funzioni di
controllo, ma grazie alla partecipazione entusiastica di chi vi partecipa,
Bauman parla di “società confessionale che promuove la pubblica esposizione che
promuove la pubblica esposizione di sé al rango di prova eminente e più
accessibile, oltre che verosimilmente più efficace, di esistenza sociale”. In
altre parole, per la prima volta nella storia dell’umanità, gli spiati
collaborano con le spie per facilitare il loro lavoro, e traggono da questa
resa motivo di soddisfazione perché qualcuno “li vede” mentre esistono come
criminali o come imbecilli.
E’ pur vero che, una volta che qualcuno può sapere tutto di
tutti, quando i “tutti” si identifichino con la somma degli abitanti del
pianeta, l’eccesso di informazione non potrà produrre che confusione, rumore e
silenzio. Ma questo dovrebbe preoccupare le spie, mentre agli spiati va
benissimo che di loro, e dei loro segreti più intimi, sappiano almeno gli
amici, i vicini e possibilmente i nemici, perché questo è il solo modo di
sentirsi vivi e parte attiva del corpo sociale.
E allora perché preoccuparsi tanto della privatezza? Non ne
importa niente a nessuno. L’importante, per esistere, è farsi vedere.
Umberto Eco – L’Espresso – 19 giugno 2014
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