Grande evento pochi
benefici
Uno stadio da 200
milioni di euro nel cuore dell’Amazzonia.
Il Brasile si illude di
risolvere i suoi problemi ospitando i mondiali di calcio.
Ma anche l’Italia
troppo spesso è colpita dalla sindrome delle grandi opere
I mondiali di calcio sono iniziati. Questi sono i giorni
delle cifre definitive, sono i giorni in cui si può dire, senza timore di
essere smentiti, che l’organizzazione dei mondiali in Brasile è costata più dei
mondiali di Germania e Sudafrica messi insieme. Sappiamo che i finanziamenti
non sono arrivati, come si era detto con tanta leggerezza, da fondi privati, ma
che tuo è stato pagato dallo Stato. Dalle sue banche. Dai cittadini.
E allora credo sia giusto ascoltare quella metà di loro che
non è soddisfatta di come sia stata indirizzata la spesa pubblica. E’ giusto
ascoltare quella metà che non è ideologicamente contro, che non lo è stata sin
dal principio, ma che a conti fatti ammette che un paese come il Brasile
avrebbe meritato attenzione ad altre priorità. Ma soprattutto, fatte le dovute
differenze, quello che mi ha colpito negli articoli che ho letto in questi
giorni, nelle proteste e nelle risposte, è quel tratto universale che fa
sentire tutto il mondo partecipe della stessa sventura. O meglio, quella parte
del mondo in cui il sistema funziona male e tutto è necessariamente delegato al
libero arbitrio del singolo. Alle singole volontà, alle singole onestà. Ma un
sistema che è destinato al fallimento, anzi allo sfascio. Non sono d’accordo
con Matteo Renzi quando dice: “Le regole ci sono, il problema sono i ladri”. Ci
si toglie ogni responsabilità scaricandone solo sugli individui. Quando i ladri
sono troppo è l’intero sistema che non funziona, perché crea sacche diffuse di
illegalità.
Oggi Si Guarda agli appalti per l’Expo e alla nuova
tangentopoli del Mose e non si comprende- ed è questo il dato universale – che
nei sistemi in cui la giustizia arranca perché sovraccarica, nei sistemi in cui
le carceri sono al collasso, il rischio di impresa criminale per i colletti
bianchi è davvero basso e il calcolo dei rischi a fronte dei benefici è
pericolosamente sbilanciato a favore dei benefici. Ecco, in questi paesi, è
difficile portare avanti ogni iniziativa senza che si trasformi, nella migliore
delle ipotesi, in uno spreco colossale, in una spesa insostenibile, in un danno
per la comunità Nella peggiore- come accade nel Nord Italia, con buona pace di
quegli zelanti provocatori di professione che versano fiumi di inchiostro per
non perdere i favori della Lega – in un affare milionario per le organizzazioni
criminali.
E Quindi, Tornando Al
Brasile, sento di
solidarizzare con chi domanda perché le risorse impiegate per i mondiali di
calcio non siano state invece investite nella sanità, nell’istruzione, nei trasporti,
nella sicurezza. Nella sicurezza appunto. Perché in Brasile, come in Italia,
peggio dell’Italia, tutto è delegato alle forze dell’ordine: alle Unidades de
policia pacifica dora, di cui il governatore di Rio de Janeiro va
particolarmente fiero. Il risultato è che le favelas “pacificate” vivono
assediate dalle forze dell’ordine e i narcotrafficanti si sono spostati in
altre favelas, non ancora “pacificate”. Tutto si ferma al contrasto mancando
totalmente quella riqualificazione del territorio che porterebbe negli anni
reali benefici. Al posto della riqualificazione c’è il grande evento. Il grande
evento che nel paese del “pallone” deve mettere tutti d’accordo. Non è
possibile che in Brasile ci sia qualcuno che non desideri ospitare i mondiali
di calcio, questo l’assunto, semplice, su cui è partita la più grossa
speculazione cui il paese ha assistito negli ultimi anni.
Una speculazione che segna una battuta d’arresto nella cavalcata
che il Brasile aveva intrapreso nell’ultimo decennio. Una battuta d’arresto che
non porterà benefici perché non esiste un sistema in grado di valorizzare
quanto fatto sino ad ora. Le opere pubbliche finalizzate ai grandi eventi hanno
senso in territorio in grado di accoglierle e di farne tesoro negli anni a
venire. Ma un paese che investe 200 milioni di euro nella costruzione dello
stadio di Manaus, l’Arena de Amazonia, nel bel mezzo della foresta pluviale, un
colosso in cui si disputeranno pochissime partite è un paese di cui non ci si
può fidare. Paulo Lins, l’autore del libro “Città di dio” (da cui nel 2002 è
stato tratto l’omonimo film), su “El Pais” ha scritto: “E’ ora di rendere
questo paese – il Brasile – una nazione”. Sento che queste parole dovrebbero
appartenerci. Anzi, ne sono certo, ci appartengono.
Roberto Saviano – L’Espresso – 19 giugno 2014
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