Il 1958 è stato ricco di avvenimenti e nel 2018, ormai alle
porte, le rievocazioni per il cinquantenario non mancheranno. Comincio in
anticipo. L’occasione mi è offerta dalla discussione aperta a Parigi
sull’opportunità di celebrare, come movimento liberale (non libertario) l’esecrato
o mitico Maggio ’68 e dal trovarmi in questi giorni a Praga, dove mezzo secolo
fa fui testimone dell’effimera “Primavera”. L’anno debuttò con la grande
speranza emersa sulle rive della Moldava. Era il 5 gennaio, giorno della nomina
a segretario del partito di Alexander Dubcek. In Agosto arrivarono i carri
armati sovietici. Il tentativo di introdurre la democrazia nel comunismo reale
fallì, finì in tragedia, ma annunciò il funerale del depressore-vincitore del
movimento. Il funerale ufficiale avvenne soltanto una ventina d’anni dopo, con
l’implosione dell’Urss, ma l’agonia senza ritorno iniziò nella meravigliosa
cornice di questa città che riscopro invasa dai turisti e dalle pizzerie. Come
nel ’38 la Cecoslovacchia era stata lasciata ai tedeschi di Hitler, trent’anni
dopo fu lasciata ai sovietici. Un piccolo prezioso paese è una facile preda. L’America era impegnata altrove, in Estremo Oriente, dove subiva l’offensiva del
Tèt. I suoi soldati, mezzo milione di uomini del più potente esercito della
Storia, scoprirono di avere i viet cong sotto il letto. Fu la sorpresa di fine
gennaio 68, in occasione del capodanno vietnamita. Gli americani riuscirono a
neutralizzare l’attacco dei guerriglieri infiltratisi negli alti comandi e
nelle caserme, ma capirono che dovevano andarsene. È quello che fecero quattro
anni dopo. Il tempo per fare i bagagli. La grande armata, vittoriosa nella
Seconda guerra mondiale, non sarebbe stata sconfitta militarmente, ma avrebbe
dovuto presidiare per un tempo indeterminata il Sud Viet Nam con
cinquecentomila uomini. Oltre ai guerriglieri sotto il letto a Saigon e a Hué,
c’erano migliaia di manifestanti contro la guerra ogni giorno a Washington e a
New York. Tutto questo equivale a una sconfitta. Nel marzo dello stesso
anno, all’altra
estremità del pianeta, nella Cuba di Fidel Castro, veniva promossa un’offensiva
rivoluzionaria”, vale a dire una più ampia collettivizzazione, tesa a colpire
le attività della piccola borghesia urbana. Il comunismo caraibico accentuava
l’impronta sovietica. Sempre nel ’68 erano ancora in piena attività le “guardie
rosse” di Mao. La rivoluzione culturale, cominciata due anni prima, fu una
lotta interna per il potere, ma allora appariva a molti giovani europei un
fermento sociale che avrebbe condotto alla nascita di un “uomo nuovo”. Tutti questi avvenimenti suscitavano entusiasmi, illusioni, distorte visioni della
realtà, e comunque alimentavano gli slogan scanditi sui boulevard parigini. Le
sponde della Senna erano il teatro di una rivolta giovanile, poi seguita da
scioperi operai, contro il potere, e in favore di tutti i movimenti dai maoisti
ai viet cong, ai cubani, visti come esempi di contropotere. Erano immagini
lontane, quindi potevano essere idealizzate, in contraddizione con il carattere
libertario del maggio ’68. Libertario e al tempo stesso liberale. Facevo allora
la spola tra il Ponte Carlo sulla Moldava e il Quartiere Latino in riva alla
Senna. Erano le due facce dell’Europa. I giovani cecoslovacchi non capivano
l’opposizione a un regime democratico che era il loro obiettivo; i giovani
francesi non capivano l’opposizione a un regime che si era liberato dal
capitalismo. Eppure gli uni e gli altri avevano in sostanza obiettivi liberali.
Ed è proprio questo aspetto che potrebbe essere ricordato cinquant’anni dopo.
Lo slogan dominante sui boulevard era “proibito proibire”. Lo stesso poteva
essere scandito sulla piazza Venceslav. Ma là arrivarono i carri armati. In vista del cinquantenario, a Parigi si discute appunto sull’opportunità di celebrare
il Maggio ’68, visto, al di là della rivolta con tinte marxiste, come un
movimento che ha favorito una nuova società più liberale, una trasformazione
culturale e politica. Insomma allora il vecchio mondo fu ripulito da molte
tradizioni e restrizioni. Rinnovò i costumi. Il carattere libertario è svanito
mentre quello liberale, nel senso autentico della parola, ha lasciato le sue
tracce.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 19 novembre
2017 -
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