Quando Mi Leggerete, forse sarò in Cina o forse no. Per
entrarci ho bisogno di un visto. Mentre scrivo, me lo negano da settimane. Con
pretesti di varia natura: prima hanno rifiutato di metterlo sul passaporto
italiano perché parto da Washington al seguito di Trump; poi il passaporto
americano non gli basta e improvvisamente mentre sto viaggiando in Italia
esigono le mie impronte digitali (mai richieste prima). È una storia che
conosco bene. Si ripete ogni anno. Quando è il momento in cui un presidente
degli Stati Uniti parte per l’Estremo Oriente, la tappa in Cina è un calvario
di vessazioni burocratiche. Non è un fatto personale contro di me soltanto.
Molti giornalisti americano subiscono le stesse angherie. Di certo il fatto che
io sia stato per cinque anni corrispondente a Pechino per le autorità cinesi è
un’aggravante: più conosci quel Paese, più sei sospetto ai loro occhi. Anche
tra i miei colleghi americani loro prendono di mira soprattutto quelli che la
Cina l’hanno frequentata, raccontata…e criticata. Di personale per me semmai
cìè un’altra cosa: ho tre figli adottivi nel Szichuan e gli ostacoli colpiscono
anche loro. Avere un visto turistico per la Cina non è affatto complicato, a
mia moglie ne diedero uno con validità decennale, in sole 24 ore. È con noi
giornalisti che ce l’hanno. E in parte con il governo americano, visto che
siamo tutti corrispondenti accreditati alla Casa Bianca, siamo già stati
oggetto di esami e controlli da parte del Secret Service, viaggiamo sotto la
loro scorta. Le autorità cinesi che invitano il presidente degli Stati Uniti
dovrebbero accettare i suoi accompagnatori. Invece vogliono darci dei messaggi
forti e precisi. La stampa è un disturbo, un’inutile seccatura, e renderci il
lavoro impossibile è una loro fissazione. Il concetto di libera informazione è
un mito occidentale a cui non intendono piegarsi. Deve essere chiaro che a casa
loro comandano in modo assoluto, con totale arbitrio, e dell’opinione
dell’Occidente non gliene importa nulla. La minuscola vicenda dei visti è uno
squarcio nella mentalità del governo cinese e del suo padrone, l’autocrate Xi
Jinping, ormai assurto a un livello di potere senza eguali dai tempi di Mao.
Non è solo a casa sua che Xi si considera un padreterno. Studiare bene la sua
biografia e le sue opere consente di entrare nella mente di questo iper-leader.
È nutrito di un immenso complesso di superiorità, individuale e nazionale.
Ritiene che la civiltà cinese sia migliore di ogni altra. È convinto che il suo
sistema politico totalitario sia ben più efficace delle nostre caotiche
liberaldemocrazie. La libertà di stampa è una di quelle stupidaggini che ai
suoi occhi confermano l’inferiorità degli occidentali. Almeno Obama faceva
qualche gesto per proteggerci. Ricordo la prima conferenza stampa congiunta
Xi-Obama: il presidente americano difese il New
York Times a cui Pechino aveva chiuso il sito Internet e a cui stava
negando visti per diversi corrispondenti. Di tutte le prediche sui diritti
umani (Tiber, ecc.) Xi mostrò d’infischiarsene e anzi riservò un’umiliazione
personale allo stesso Obama: un anno fa ad Hangzhou, all’atterraggio dell’Air
Force One mancò misteriosamente la scaletta da cui il presidente Usa è solito
scendere sotto le riprese tv. Dopo mezz’ora di attesa chiuso dentro l’Air Force
One, Obama dovette scendere da una scaletta “di servizio”, posteriore, piccola
e nascosta alle telecamere. Con Trump non abbiamo più un difensore né della
libertà di espressione né in generale dei diritti umani. I cinesi non vogliono
noi giornalisti? Peggio per noi! Un’aggiunta: se veniamo trattati così, provate
a immaginare la sorte che subiscono quei pochi giornalisti cinesi eroici, che
hanno tentato di fare il loro mestiere al servizio dei cittadini.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica 11-
novembre 2017 -
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