Sfilano In Queste settimane, sui teleschermi americani,
omaccioni con enormi barbe che l’immagine ad altissima definizione permette di
esaminare pelo per pelo, inquietanti figure armate di bastoni di legno con il
capo protetto da un elmetto. Sono i campioni di baseball, completamente
inoffensivi, tra i quali, da qualche tempo, è esplosa la moda della super
barba. Sarebbero affari loro, se non sapessimo che acconciature, mode,
abbigliamento, tic delle celebrità sportive hanno enorme influenza sui giovani
della nostra specie. Lo scorso anno uno dei miei nipotini, appassionato
calciatorino e benedetto da una capigliatura forte e scura, tornò da una visita
dal barbiere con i capelli tagliati “come Insigne”. Questo spiegò alla mamma
americana sbalordita, che non aveva idea di chi fosse questo Insigne, il
campioncino del Napoli calcio che aveva visto in televisione. Il ritorno della
barba, osteggiata a lungo negli Usa come segnale di radicalismo di sinistra, è
coinciso con giovani generazioni di attori che esibivano la peluria apparentemente
incolta, ma in realtà curatissima, da cinque o sei giorni senza rasatura.
Volevano creare quell’impressione di trasandatezza strafottente, d ribellione
alle convinzioni che poi milioni di giovani conformisti avrebbero imitato. Cime
uomo che porta la barba da mezzo secolo e ha resistito all’ordine di
ragliarsela ricevuto, da giovane redattore, da un direttore di giornale, sono
ovviamente poco obiettivo. Ma il prepotente successo della barba variamente
lunga nell’America del nuovo millennio è sorprendente. Per decenni è stata
guardata con la diffidenza di quel mio vecchio direttore che anni più tardi se
la fece crescere a sua volta), in questo Paese che ha dato i natali a un certo
signor Gillette e depositato, nel 1913, il brevetto del rasoio di sicurezza per
le lamette a doppio taglio. Un viso fresco e ben rasato, anche se purtroppo
spesso offeso da atroci e dozzinali dopobarba, era indispensabile per avere
successo, professionale e romantico. Nella Hollywood in bianco e nero, tolti i
film in costume, la barba era riservata ai villain,
ai malvagi. Nel linguaggio popolare, e oggi evitano, “barbone” è un insulto.
Tuttora, nessun politico oserebbe mostrarsi con la barba lunga, e fu nel 1913,
l’anno del brevetto Gillette, che si videro per l’ultima volta i baffi di un
presidente, William Talft. A Nixon veniva rimproverato il fatto che, verso le
cinque del pomeriggio, l’ombra della sua barba nerissima gli scurisse le
guance, gettando una luce ambigua sul suo viso; mentre John Kennedy appariva
sempre rasato di fresco, dunque “sincero”. Ora la barba è accettata nella
finanza, nello spettacolo, nello sport, nei rapporti fra i sessi. Uno studio
vastissimo, pubblicato dal periodico ufficiale degli psicologi del
comportamento, ha concluso che le donne non solo lo accettano ma l’apprezzano.
Con qualche distinzione, però: il maschio con la barbetta incolta piace come
possibile compagno per un’avventura; quello con una barba robusta è vista come
una persona stabile, rassicurante partner di lungo corso e potenzialmente buon
padre. La ricerca qualcosa di vero deve indicare, visto che la mia futura
moglie scelse la mia barba per un matrimonio che resiste da 48 anni. Neppure
l’irrompere degli Islamisti radicali, con i loro bavaglini di pelo, ha
riportato il calendario dei costumi al tempo dei volti glabri costringendo i
maschi alla quotidiana rasatura. Viceversa, le donne restano condannate alla
depilazione delle gambe. E si sa che radersi è, onestamente, una barba (lo so,
lo so, ho lottato e resistito per una pagina intera a questa tragica battuta e
poi ho ceduto. Scusatemi.
Vittorio Zucconi –Opinioni – Donna di La Repubblica – 11
novembre 2017 -
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