Che Cosa E’ Successo? Qualcosa che ha spezzato relazioni, famiglie, vite. Un fenomeno a tratti
impercettibile, anche se lo sfascio delle famiglie (92mila separazioni solo nel
2015) è una strage silenziosa. Tutto finisce, tutto può finire, ma qui spesso
c’è un surplus che resta e non può finire: ed è la vita, sono i bambini. I
piccoli diventano oggetto di contesa senza esclusione di colpi. Paolo non vede
il figlio da sei mesi nonostante l’atto di separazione prevedeva un pomeriggio
a settimana con il papà e un week end ogni 15 giorni, ma Giovanni non vuole più
stare con il papà. Il discredito continuo della mamma, le ingiurie, hanno
distrutto la figura paterna fino al punto che il bambino pensa di farne a meno.
Invece per Anna è l’ex marito che non vuole vedere i figli, così la piccola
piange ogni sera un’ora prima di addormentarsi. Sofferenze, azioni legali,
ricorsi, come uno tsunami permanente perché forte come la morte è l’amore, ma
qui diventa una malattia incurabile. Ci sono certamente motivi personali, ma le
chiedo, caro Galimberti, quanto tutto questo dipende dalla società? Quanto
incide il non lavoro, il timing frenetico, la relazionalità veloce e
intangibile dei social? La sterilità delle relazioni nei quartieri dove solo si
dorme? Le città fatte solo per il traffico e il commercio? Fabrizio Floris f.floris@labins.it
Tute Queste Cose insieme, caro Fabrizio, ma due
soprattutto: non sappiamo più amare, e il dolore che infliggiamo agli altri non
ci commuove più. “Non sappiamo più amare” significa che quando ci siamo
innamorati abbiamo confuso l’amore con la passione. E siccome la passione è una
dimensione passiva che sospende la capacità del nostro Io di governare se
stesso, e soprattutto non lo impegna in un’azione come invece richiede l’amore,
quando la passione si estingue il nostro Io si risveglia dal suo incanto e va a
cercare un altro incantamento, per tornare passivo e disimpegnato come ci si
trova ad essere quando si è coinvolti nello spasmo di una passione. “Non ci
commuove il dolore che infliggiamo agli altri” perché pensiamo solo alla nostra
insoddisfazione, dal momento che al di là della passione, con l’altro non
abbiamo condiviso un bel niente, se non il coinvolgimento passionale che, una
volta estinto, ci ha fatto apparire l’altro come un estraneo, un insopportabile
estraneo. E i figli? Ci siamo occupati di loro per quel tanto (che poi è
pochissimo) che ci hanno intenerito o sedotto, non abbiamo giocato con loro,
non li abbiamo osservati nella loro crescita. E soprattutto non abbiamo parlato
con loro per creare quella base dialogica che poi s’interrompe quando ragazzi
hanno 12 o 13 anni, per poi riprendere quando, trovandosi in difficoltà,
ricominciano a parlare con noi solo se a suo tempo noi abbiamo parlato con
loro. In caso diverso, anche per loro noi siamo degli estranei. I figli, tutti
i figli, soffrono in presenza di una separazione, perché le loro correnti
affettive orientate sui genitori si inceppano o diventano incerte, perché non
sanno come raggiungere la meta a cui prima erano naturalmente indirizzati.
Anche se non lo manifestano, la loro affettività è disturbata. E più sono
piccoli, più il disturbo è significativo, perché vien meno il loro naturale
oggetto d’ampre rappresentato da mamma e papà. È altrettanto vero che
l’affettività dei figli è compromessa anche dalle convivenze dove, invece
dell’amore, circola, espresso o sottinteso, fastidio, indifferenza, quando non
violenza e odio. Pertanto sia che ci si separi sia che si continui a convivere
in condizioni di disamore, il danno ai figli è fato. Inutile raccontarci altre
storie. L’unico parziale rimedio è attenuare il danno con separazioni non dico
“civili” che possono essere anche gelide e non meno dannose, ma cordiali,
gentili, al limite affettuose, in modo da lasciare ai figli la sensazione che i
loro canali affettivi non sono interrotti, anche se mamma e papà non vivono più
insieme. Se poi i figli, come lei ricorda, diventano oggetto delle contese
genitoriali, allora siamo alla crudeltà mentale di chi utilizza il sentimento
incondizionato che lega i genitori ai figli per ottenere vantaggi economici, o
semplicemente per vendicarsi del tradimento o dell’abbandono subito. La
soddisfazione emotiva che dà la vendetta, quando il gioco condotto sulla testa
dei bambini è pura e semplice crudeltà, quando è procrastinata restringe
l’anima in fantasie di astiosità e crudeltà, impedendo un rapporto sereno nella
crescita dei figli, perché un’anima rattrappita nella vendetta non è
disponibile se non per un gioco crudele. Dopo non dobbiamo lamentarci se
nell’adolescenza i nostri figli presentano un’affettività irritante. Dagli
affetti e dai sentimenti si sono difesi per non essere sopraffatti
dall’angoscia, quando hanno visto tutto l’odio e tutta la rabbia che correva
tra i loro genitori.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 4 novembre
2017 -
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