Ha Superato I Duecento,
ma non li dimostra.
E continua a essere il più grande seduttore di sempre. Quello di Don Giovanni è
un mito che ha affascinato e ossessionato l’immaginario maschile. E anche
quello femminile. Al punto che il grande scrittore spagnolo José Ortega y
Gasset, con tagliente disincanto, diceva che gli uomini si dividono in tre
tipi. Quelli che si credono dei Don Giovanni. Quelli che pensano di essere
stati dei Don Giovanni. E infine, i più velleitari di tutti, quelli che dicono
che avrebbero potuto ma non hanno voluto. Come dire che in ogni maschio il
desiderio, palese o inconfessato, di vedere le donne cadere ai propri piedi
come birilli, oscilla sempre tra il vorrei ma non posso e il potrei ma non
voglio. Tra fantasia e frustrazione. Ma soprattutto collezione. Perché Don
Giovanni è il primo consumatore compulsivo di avventure, di cui tiene
addirittura il catalogo. Più sterminato di quello Ikea. “In Italia
seicentoquaranta, in Germania duecentotrentuno, cento in Francia e in Turchia
novantuno, ma in Spagna son già mille e tre”. È la trovata geniale di Mozart.
Tradurre in quantità numerabili il mistero inafferrabile dell’amore. L’oscuro
oggetto del desiderio che viene ridotto in cifre nel tentativo impossibile di
calcolare l’incalcolabile. Di trasformare il fantasma affascinante e
perturbante del femminile in un rassicurante score di conquiste. Da esibire
come un trofeo. O un ‘auto. O una moto. Domani ricorre il duecentotrentesimo
anniversario della nascita del Don
Giovanni di Mozart, andato per la prima volta in scena al Teatro Statale di
Praga il 29 ottobre 1787. Da quel giorno lo sciupafemmine per antonomasia ha
per noi il volto e la voce che gli diede il divino Wolfgang. Facendolo
diventare uno dei più grandi miti della modernità. Per lui non importa “se sia
ricca, se sia brutta, se sia bella. Purché porti la gonnella”. È la versione
alta del dozzinale “purché respiri”. E proprio questo aspetto predatorio e
performativo, che riduce la donna a oggetto da possedere e l’amore a forma di
consumo, ha trasformato il dissoluto mozartiano in un bersaglio della critica
femminista, Che ha visto nel dongiovannismo e nella sua idea di seduzione
seriale la riduzione della donna a preda per maschi alfa. O, ancor peggio, a
oggetto da collezione. Insomma, l’uomo che fiuta “l’odor di femmina” a mille
miglia, proprio come il businessman quello dei soldi, è di fatto un capitalista
dell’amore che accumula profitti senza scrupoli. E al tempo stesso è un
potenziale stupratore, che usa il suo ruolo dominante per costringere le
vittime ad assecondare i suoi capricci. Un Harvey Weinstein in versione ansien régime. Ma, come tutti i
personaggi mitici, Don Giovanni non ha una sola dimensione. E ciascuno ci vede
il riflesso dei suoi valori, delle sue passioni e delle sue ossessioni. Il grande
Molière lo veste dei panni del libero pensatore e ne fa un campione del
pensiero laico. E perfino un liberatore delle donne che esonera dall’obbligo di
essere esclusivamente mogli e madri. In fondo la legge del desiderio libera
tutti, perché rimette in discussione la fissità dei ruoli sociali, compresi
quelli di genere. Non a caso oggi per essere dei dongiovanni non occorre essere
un macho latino. E non è nemmeno necessario essere uomo. Perché, per fortuna,
la possibilità di sedurre e abbandonare sta diventando trasversale. Più equa e
solidale. Senza pudore e senza rancore. In fondo la flessibilità del
personaggio è tale da sfiorare l’interinalità. Perché il grande libertino vive
una sorta di eterno presente, fatto di attimi fuggenti da cogliere al volo.
Insomma ogni lasciata è perduta. Non ha tempo per pensare al passato, né per
immaginare il futuro. Ma è immerso in una rete di relazioni simultanee. È
l’opposto del monogamo. Perché un vero dongiovanni è fedele solo a sé e a
nessun altro. Ma non è nemmeno poligamo. È semplicemente multitasking. Proprio
come noi.
Marino Niola – Opinioni – Donna di La Repubblica – 28 ottobre
2017
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