Tutto Ruota Attorno al lavoro, alle regole di vita, di socializzazione. Ho appena fato n
corso sulla resilienza che il nostro coach ha indicato adatta al problema
solving. Molto interessante, Ma cosa produce? Quali sono gli effetti
collaterali? Emanuela
emanucardonali@gmail.com
C’è Un Elemento terribile che sta minando nel
profondo la solidità già molto precaria della scuola. L’elemento della
medicalizzazione sempre più diffusa degli studenti. Si moltiplicano sempre più
i certificati che attestano bisogni educativi speciali (BES) e disagi specifici
dell’apprendimento (DSA). Naturalmente non siamo qui a negare il fatto che
possano esserci studenti con delle difficoltà oggettive, ma a denunciare la
sostituzione e l’aggiramento dello sforzo didattico con un’epidemia di
ipocondria collettiva. In fondo l’apprendimento è strutturalmente un disagio,
quello di non sapere che deve lottare per venire a capo di se stesso. Certificati
che ormai non si negano più a nessuno stanno risolvendo la figura dello
studente in quella del paziente. Oggi i giovani sembrano l’oggetto di un grande
fenomeno di ospedalizzazione collettiva. L’agorà sembra sempre di più lasciare
il posto al lazzaretto, l’agonismo all’agonia.
Coach nei posti di lavoro per persuadere chi lavora che, se
cambia atteggiamento o modo di vedere le cose, migliora il suo stato e le
condizioni del suo lavoro, che diventa più piacevole e (ma soprattutto per
l’azienda, però questo non lo si dice) più produttivo. Cassaintegrati e
licenziati hanno bisogno di un’assistenza psicologica per la loro depressione o
non piuttosto di un nuovo posto di lavoro? Perché patologizzare situazioni che
diventano drammatiche non per ragioni psicologiche, ma per eventi oggettivi la
cui soluzione coincide con la fine del disagio? E che dire degli psicologi
chenelle scuole etichettano come “affetti da un disturbo da deficit di
attenzione con iperattività (ADHD)” quei bambini che sono semplicemente un po'
vivaci o perché creativi o perché bisognosi di un po' più d’attenzione o un po'
più d’amore? Che dire di quei medici che, su richiesta dei genitori, sono
disposti a rilasciare certificati che attestano “bisogni educativi speciali
(BES)” che poi significa individuare i bisogni dell’alunno e le strategie più
idonee per raggiungere concreti risultati educativi, impartire un insegnamento
il più possibile individualizzato, coinvolgere più attivamente i compagni di
classe in modo che interagiscano più efficacemente tra loro. In pratico quello
che si dovrebbe fare per tutti gli alunni in tutte le scuole, con l’unica
condizione di ridurre da trenta a quindici il numero degli alunni che
compongono la classe Se il BES non fosse sufficiente per un trattamento
educativo speciale, il medico aggiunge il DSA (Disturbi specifici di
apprendimento) che riguardano il lessico, le difficoltà nella lettura e nella
scrittura, l’abilità nel calcolo, che spesso, senza essere etichettate
medicalmente, sono difficoltà che possono essere superate con l’esercizio e
l’applicazione, senza indurre nell’alunno la sensazione di essere diverso e
senza fargli sentire l’ansia dei genitori che ne moltiplicano le cure. E a
proposito di ansia, perché ricorrere a espressioni cliniche che parlano di
“sindrome di anzia generalizzata” per dire che una persona è preoccupata, o di
“ansia sociale” per chi è semplicemente timido, o di “fobia sociale” per chi ha
un carattere riservato, o di “libera ansia fluttuante” per chi non sa di che
cosa si preoccupa? Ma cosa c’è dietro questo cambiamento linguistico per cui
esperienze che un tempo erano ritenute normali oggi sono rubricate come
patologiche? Io penso che quest’invasione della psicopatologa nella vita
quotidiana serva a creare in noi un senso di vulnerabilità, s e non addirittura
di sensazione di avere un Sé insicuro che ha bisogno di protezione, di qualcuno
che si prenda cura di noi e ci guidi. Secondo il sociologo Frank Furedi
dell’Università di Kent a Canterbury, la diffusione di “quest’etica
terapeutica” risponde all’esigenza di omologare gli individui non solo nel loro
modo di “pensare”, ma anche e soprattutto nel loro modo di “sentire” affinché
già da sé si sentano insufficienti e bisognosi di essere, se non proprio
guidati, certamente accompagnati nella loro vita quotidiana. In questo modo,
scrive Furedì ne Il nuovo conformismo
(Feltrinelli): “Si dà avvio a un regime di controllo sociale, dove a ciascuno
si insegna a stare al proprio posto, offrendo in cambio i dubbi benefici della
conferma e del riconoscimento”. Sorge a questo punto spontanea la domanda se
alle volte il posto lasciato vuoto dalla religione non sia stato occupato,
senza che noi ce ne accorgessimo, dalla psicologia, anzi, come dice il
sottotitolo del libro di Furedi, da “troppa psicologia nella vita quotidiana”?
Umbertogalimberti@repubblica.it
- Il Venerdì di La Repubblica – 28 ottobre 2017 -
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