Qualche Giorno Fa, sfogliando distrattamente D-la
Repubblica, sono incappata in una riflessione molto interessante, a lei
indirizzata, sullo jus culturae. Come
diceva il lettore, perché una comunità si costituisca è necessario che le persone
si incontrino, scambino tra loro emozioni, sentimenti, riflessioni e facciano
di questa comunicazione profonda e autentica il nutrimento vero
dell’appartenenza. Ebbene mi permetta, Galimberti, di dissentire invece da
quello che lei ribadisce in risposta al lettore come una sorta di mantra: se
uno nasce in Italia frequenta la scuola italiana è italiano e anche formalmente
gli va riconosciuta la cittadinanza. Non è semplificando i ragionamenti che si
può affrontare la questione. Se il bambino/a vive in un contesto familiare e
sociale affetto da quello che comunemente si chiama “la patologia del rancore”,
secondo cui l’Occidente è la causa prima e sola dell’arretratezza economica,
scientifica e culturale della vasta e variegata galassia di religione islamica;
se questo humus consegna i genitori e la cerchia amicale e parentale a un senso
di sé come vittime, suscitando frustrazione e rabbiose richieste di
risarcimenti a posteriori di quanto avvenuto nel corso della storia (da Lepanto
a Vienna alla riconquista della penisola iberica) non sarà certo l’attribuzione
giuridica della cittadinanza a cambiare di un epsilon questa condizione di
profonda scissione e di infelicità . Occorrerà un lavoro di lunga durata e in
profondità. Luciana Piddiu ipiddiu@hotmail.com
Provo A Seguirla nel suo ragionamento. Lo jus culturae nasconde, a mio parere,
delle trappole che sarebbe opportuno evidenziare. 1). Secondo lei rientrano
nello Jus culturae tutti quei giovani
che riempiono le curve dei nostri stadi? Sì, per nessun altro motivo (tanto
meno culturale) se non quello di essere nati sul suolo italiano e iscritti
all’anagrafe al momento della nascita, cosa negata ai figli degli immigrati
nati in Italia. E ancora, rientrano nello jus
culturae anche quegli strati di popolazione che vivono in una cultura
mafiosa, dove la famiglia (mafiosa) è più importante per giunta conflittuale
con i diritti e doveri di cittadinanza dei membri che la compongono? Non hanno
la cultura dello Stato e tantomeno delle sue istituzioni, non hanno un’economia
trasparente, le leggi che riconoscono non sono quelle dello Stato, ma quelle
del clan, eppure nessuno pone la questione se queste persone, che non hanno
alcun legame con lo jus culturae,
siano o meno italiani. 2. Lo jus culturae sottintende che la nostra cultura è
quella giusta e le persone che hanno un’altra cultura e vengono da noi devono
adeguarsi alla nostra. Ma francesi e inglesi non si sono, non dico adeguati, ma
neppure fatti carico di prendere in considerazione le differenze etniche e
culturali dei popoli del Medio Oriente quando, alla fine della prima guerra
mondiale, con righello e compasso ne hanno tracciato i confini, creando le
premesse dei conflitti attuali. Noi italiani non ci siamo adeguati alla cultura
dei libici o degli etiopi quando nel 1936 siamo andati nelle loro terre a
compiere massacri e genocidi. Le multinazionali occidentali non si sono
adeguate alla cultura delle popolazioni africane quando sono andate nei loro
territori a spogliarli della loro ricchezza, se è vero che ancora oggi il PNUD
(Programma delle Nazioni Unite dello Sviluppo) ci informa che gli aiuti che noi
forniamo ai Paesi africani sono un decimo della ricchezza che annualmente
sottraiamo a loro. E poi queste popolazioni dovrebbero anche ringraziarci e
amarci per questa nostra metodica spoliazione? E dovrebbero stare a casa loro e
morire di fame perché i migranti economici non rientrano dei diritti d’asilo
previste dalle nostre leggi? E questa sarebbe la nostra “cultura” a cui loro
dovrebbero adeguarsi venendo da noi, senza che noi si faccia un passo verso d
loro, anche se sappiamo benissimo che il nostro benessere dipende dal basso
costo delle materie prime che abbiamo imposto a loro, a partire dal petrolio,
vera causa della destabilizzazione del Medio Oriente di cui ancora dobbiamo
temere le conseguenze. E non chiami “patologia del rancore” il fatto che queste
popolazioni si sentono “vittime che avanzano rabbiose richieste di risarcimenti
a posteriori di quanto avvenuto nel corso della storia”, perché questa storia
dura tutt’ora, se è vero che il suo telefonino, come peraltro il mio, può
funzionare solo grazie a un minerale, il coltan, che si estrae nelle miniere
del Congo dove, come schiavi, gli abitanti lavorano con compensi da fame, senza
alcuna sicurezza, e dove una vedova o una madre non può nemmeno piangere il
corpo del proprio caro sepolto e abbandonato dentro le voragini della montagna.
E’ questa la cultura di noi occidentali a cui anche loro dovrebbero adeguarsi?
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 11
novembre 2017 -
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