Rieccomi a Tokio, come tante volte ai vecchi tempi. Ma
tutto solo. Sembra un controsenso, nella megalopoli da 15 milioni di abitanti
che ha inventato il “caos calmo”, il sovraffollamento ordinato, dove perfino ai
semafori rossi pedonali ci si mette disciplinatamente in coda a strati, in fila
per sei col resto di due. E non parlo della solitudine alla Bill Murray in Lost in translation, l’americano
sperduto in un paese gentilissimo e indecifrabile, dalla toponomastica
incomprensibile, dove l’inglese serve a poco (anche i giovani che lo sanno non
lo parlano, il terrore di pronunciare male li blocca). No, a Tokyo mi ritrovo
solo nel senso che sono l’unico giornalista italiano al seguito di Donald
Trump, nelle prime tappe del suo viaggio in Asia. Solo fra un po' di colleghi
americano e asiatici; qualche tedesco, pochi inglesi. Mi era già successo in
primavera quando lo seguii in Arabia Saudita e Israele. Un tempo la comitiva
dei giornalisti accreditati alla Casa Bianca che seguivano i presidenti nelle
missioni internazionali, ne includeva tre o quattro italiani. Sono un
superstite. Per quanto tempo ancora? Non c’entrano Trump e la sua scarsa
popolarità. La decimazione è cominciata da anni, con Obama. Via via ho visto
sparire da questi viaggi i colleghi di Le
Monde, El Pais, The Indipendent e altri quotidiani europei che un tempo
erano una presenza fissa. Testate che in passato facevano dell’informazione
internazionale un punto di forza, ora mancano all’appello. È una triste
questione di soldi. Mandare un inviato all’estero costa. Se poi deve sottostare
ai diktat della Casa Bianca, che crea corsie preferenziali per chi viaggia con
i suoi mezzi, la spesa sale. Washington noleggia un normalissimo aereo, ti
colloca in economy con orari pazzeschi e tappe scomodissime, ma fattura a
prezzi stratosferici. Perché ai giornali fanno pagare i viaggi dello staff
della Casa Bianca stessa e degli uomini del Secret Service che ci scortano,
proteggono e/o sorvegliano. Fanno pagare anche un ”accesso alle fonti” che con
Obama era davvero utile, oggi è a dir poco faticoso. Questo, nelle difficoltà economiche in cui la
stampa si dibatte, crea un effetto perverso: la tentazione di seguire questi
eventi da lontano. Restando in redazione, seduti a una scrivania, gli occhi
incollati allo schermo di un pc, a leggere agenzie e comunicati, a guardare i
tg. È una strada inclinata. Porta in un luogo molto pericoloso. Il giornalismo
fatto così, come può difendersi dall’assalto dei blogger, dei tuttologi
improvvisati sui social media, dei commentatori in pigiama che rovesciano
teorie attingendo a tutto lo sciocchezzaio della Rete? Cosa rimane della
professionalità di un giornalista che non va più a vedere le cose, a esplorare
paesi lontani, a documentarsi sull’agenda dei governi stranieri, sulle tensioni
tra i popoli, le linee di frattura tra le civiltà e le egemonie imperiali? Una
sala stampa che si svuota riguarda tutti i cittadini. Tanto più quando i summit
tra i potenti mettono in scena personaggi che odiano e boicottano
l’informazione. A Trump non importa nulla di avere inviati al seguito. Xi
Jinping, Putin, Erdogano o Duterte, ai loro giornalisti hanno già messo la museruola.
Q40 milioni di americani ricevono loro notizie quotidiane da Facebook, e
durante la campagna elettorale la propaganda russa ha invaso i social
acquistando spazi per manipolare, diffondere fake news. E così, come rivela
un’interessante inchiesta dell’Economist, cresce nel pubblico la differenza
verso i social. Ma diffidare non basta, se le fonti di real news deperiscono e vengono sostituite da un giornalismo fatto
a tavolino.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 25
novembre 2017 -
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