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giovedì 30 novembre 2017

Lo Sapevate Che: La verità è una questione di soldi



Rieccomi a Tokio, come tante volte ai vecchi tempi. Ma tutto solo. Sembra un controsenso, nella megalopoli da 15 milioni di abitanti che ha inventato il “caos calmo”, il sovraffollamento ordinato, dove perfino ai semafori rossi pedonali ci si mette disciplinatamente in coda a strati, in fila per sei col resto di due. E non parlo della solitudine alla Bill Murray in Lost in translation, l’americano sperduto in un paese gentilissimo e indecifrabile, dalla toponomastica incomprensibile, dove l’inglese serve a poco (anche i giovani che lo sanno non lo parlano, il terrore di pronunciare male li blocca). No, a Tokyo mi ritrovo solo nel senso che sono l’unico giornalista italiano al seguito di Donald Trump, nelle prime tappe del suo viaggio in Asia. Solo fra un po' di colleghi americano e asiatici; qualche tedesco, pochi inglesi. Mi era già successo in primavera quando lo seguii in Arabia Saudita e Israele. Un tempo la comitiva dei giornalisti accreditati alla Casa Bianca che seguivano i presidenti nelle missioni internazionali, ne includeva tre o quattro italiani. Sono un superstite. Per quanto tempo ancora? Non c’entrano Trump e la sua scarsa popolarità. La decimazione è cominciata da anni, con Obama. Via via ho visto sparire da questi viaggi i colleghi di Le Monde, El Pais, The Indipendent e altri quotidiani europei che un tempo erano una presenza fissa. Testate che in passato facevano dell’informazione internazionale un punto di forza, ora mancano all’appello. È una triste questione di soldi. Mandare un inviato all’estero costa. Se poi deve sottostare ai diktat della Casa Bianca, che crea corsie preferenziali per chi viaggia con i suoi mezzi, la spesa sale. Washington noleggia un normalissimo aereo, ti colloca in economy con orari pazzeschi e tappe scomodissime, ma fattura a prezzi stratosferici. Perché ai giornali fanno pagare i viaggi dello staff della Casa Bianca stessa e degli uomini del Secret Service che ci scortano, proteggono e/o sorvegliano. Fanno pagare anche un ”accesso alle fonti” che con Obama era davvero utile, oggi è a dir poco faticoso.  Questo, nelle difficoltà economiche in cui la stampa si dibatte, crea un effetto perverso: la tentazione di seguire questi eventi da lontano. Restando in redazione, seduti a una scrivania, gli occhi incollati allo schermo di un pc, a leggere agenzie e comunicati, a guardare i tg. È una strada inclinata. Porta in un luogo molto pericoloso. Il giornalismo fatto così, come può difendersi dall’assalto dei blogger, dei tuttologi improvvisati sui social media, dei commentatori in pigiama che rovesciano teorie attingendo a tutto lo sciocchezzaio della Rete? Cosa rimane della professionalità di un giornalista che non va più a vedere le cose, a esplorare paesi lontani, a documentarsi sull’agenda dei governi stranieri, sulle tensioni tra i popoli, le linee di frattura tra le civiltà e le egemonie imperiali? Una sala stampa che si svuota riguarda tutti i cittadini. Tanto più quando i summit tra i potenti mettono in scena personaggi che odiano e boicottano l’informazione. A Trump non importa nulla di avere inviati al seguito. Xi Jinping, Putin, Erdogano o Duterte, ai loro giornalisti hanno già messo la museruola. Q40 milioni di americani ricevono loro notizie quotidiane da Facebook, e durante la campagna elettorale la propaganda russa ha invaso i social acquistando spazi per manipolare, diffondere fake news. E così, come rivela un’interessante inchiesta dell’Economist, cresce nel pubblico la differenza verso i social. Ma diffidare non basta, se le fonti di real news deperiscono e vengono sostituite da un giornalismo fatto a tavolino.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 25 novembre 2017 -

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