Qualche Mese Fa ricevetti un messaggio inaspettato.
Il nome del mittente toccò corde familiari e riaccese memorie ancora vivide,
seppure remote. In un attimo riaffiorarono l’odore di gesso, la trepidazione
per la gita alla Cascina Rosina con i panini alla cotoletta nel cesto da pic
nic, un ragazzino dai ricci neri, educato e inarrivabile. Era lui a scrivermi,
a distanza di quasi quarant’anni da quell’escursione in pullman di cui ricordo
solo le cotolette. Mi comunicava in poche righe dolenti e affettuose che la sua
mamma non c’era più. Lei si chiamava Irene, aveva molti anni ed era stata la
mia maestra delle elementari. L’orfano era lui, suo figlio, che ogni tanto a
quei tempi compariva al suo fianco e che, per tutte noi bambine facili al
languore, univa al volto pulito e amabile del principe azzurro lo stesso
sorriso della signora maestra. Fu a lui e a sua sorella che scrissi una
risposta di cordoglio e partecipazione, aggiungendo qualche ricordo di quella
donna minuta e appassionata, capace di lasciare tracce indelebili, come solo i
grandi sanno fare. Eppure orfana mi sentii anche io, improvvisamente sola,
persa, privata di un faro che, me ne resi conto dolo allora, aveva continuato a
brillare e a guidarmi nei decenni. Mi insegnò la calligrafia la bellezza dei
numeri, l’amore per le parole, la loro importanza. Le baso di tutto ciò che ho
imparato dopo. In terza elementare, un pomeriggio, per completare un lavoro di
classe fui convocata a casa sua, assieme ad altro compagno. Probabilmente era
un appartamento come tanti, ma a noi sembrò la migliore approssimazione del
paradiso. Il funerale fu celebrato un sabato tiepido e luminoso nella
parrocchia accanto a casa sua, la stessa dove ci eravamo avventurati allora. Ci
andai in bicicletta, in tasca un bigliettino con qualche parola per ricordarla.
Pedalando verso la chiesa ero smarrita, disorientata, annichilita. Benché
cercassi di razionalizzare e contenere il mio dolore (“Aveva 90 anni, è stata
molto amata, aveva un marito, figli, nipoti, ex alunni affezionati. Ha fatto il
lavoro che le piaceva. La vita funziona così: dopo un po' finisce”) ero
sopraffatta da un senso di perdita definitiva e irreparabile. Da non credente,
le cerimonie religiose difficilmente mi coinvolgono o mi emozionano. Eppure
quel giorno, mimetizzata tra sconosciuti, aliena in un luogo estraneo, percepii
la solennità del rito, la sconfitta drammaticità di un addio. Piansi tutte le
mie lacrime, mi rimpicciolii fino a scomparire, pronunciai al microfono il mio
saluto tra i singhiozzi. Mentre annegavo nel mio pantano di irragionevole
dolore, pensavo a mia madre e a mia nonna
e a quello che avrebbero detto di me in quel frangente: “Che volgarità”.
“Che mancanza di contegno”. Che spettacolo poco dignitoso. “Piantala di tirare
su col naso!”. Non vedevo né sentivo la maestra Irene da 36 anni, fatta
eccezione per un breve incontro nel mezzo. Prima di quella, ho subito altre
perdite di persone care o significative ma difficilmente mi sono ridotta in
quel miserevole stato. Cosa rendeva quella perdita tanto lacerante allora? Lo
capii lì, sulle panche di quella chiesa di quartiere. La maestra Irene ha
rappresentato la scoperta del mondo attraverso i libri, la memorabile partenza
di un percorso che non dovrebbe mai finire, il primo, fondamentale punto di
riferimento intellettuale fuori dalla famiglia, un seme capace di germogliare
rigoglioso. È stata l’inizio della mia vita discente. La sua scomparsa è stata
un colpo basso, un tradimento, la fine di un’epoca. La triste e inevitabile
consapevolezza che, purtroppo, si diventa grandi anche per sottrazione.
Claudia de
Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 18 novembre 2017 -
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