Nella Vita Di Un
Genitore c’è il
tempo dell’onnipotenza. Inizia nel momento stesso della nascita del proprio
figlio. “Non saprei badare a un cucciolo di cane, come pensano che possa
prendermi cura di un bebè?”, mi domandai ritrovandomi tra le braccia il
primogenito neonato, atterrita e incredula che una creatura così compiuta e
bisognosa potesse essere uscita da me. Quella creatura che solitamente è ben
più coriacea di quanto non ci appaia, evolve, impara a camminare, a parlare, a
interagire con noi che, da dispensatori di servizi primari, diventiamo
supereroi. Indipendente dai nostri reali meriti e talenti, per lei siamo l’alfa
e l’omega, il centro esatto dell’universo, l’unica normalità possibile, la
soluzione a qualsiasi problema, la soddisfazione di ogni languore. Possiamo
inciampare, sbagliare, combinare disastri ma il nostro bambino continuerà a
credere ciecamente in noi, perché siamo l’unico fato che abbia mai conosciuto. C’è
qualcosa di struggente in quella fiducia infantile piena e totale. C’è qualcosa
di terrificante e appagante nel ruolo di atro. C’è qualcosa, per fortuna, di
effimero e caduco in questa relazione sublime e insostenibile. Un giorno
infatti quell’individuo tenero paffuto e in adorazione, ci guarda in tralice e
sbuffa. Non è possibile, ci deve essere un errore, forse non si sente molto
bene. Ci stupiamo, illudendoci che niente sia cambiato. Il giorno dopo si
ritrae quando lo abbracciamo, quello dopo ancora esclama: “Faccio da solo”,
quello successivo ci ritiene dei falliti. Il piedistallo genitoriale comincia a
scricchiolare con la pubertà e si schianta al suolo in mille pezzi con
l’adolescenza: in un battito di ciglia il re è nudo, l’astro si è spento, il
supereroe è un patetico tizio di mezza età in calzamaglia. Un collega, quattro
volte padre, un giorno mi disse: “Abbiamo voluto tanti figli così ce n’è sempre
almeno uno che non è orribile con noi genitori”. “Avete voglia di venire a
vedere una mostra con me?”, chiedo, speranzosa di sabato pomeriggio. “Ehm,
grazie, mi piacerebbe ma purtroppo devo uscire con i miei amici, chattare con
il Tennesse, allacciarmi le scarpe, guardare intensamente il soffitto”,
risponde senza vergogna il quattrodicenne. “Grazie, ma devo ripassare la
classifica del campionato di serie A, B e C1”, replica l’undicenne senza
distogliere lo sguardo dal suo giornale di riferimento, incidentalmente rosa.
“Quando hai finito, magari?” insisto. “No, devo studiare le formazioni della
Juve dal 1980 a oggi”. Mi rivolgo al più piccolo, sette anni, il candore dei
bambini temperato dal cinismo pragmatico dei terzogeniti. Sgrana i suoi occhi fondi,
incredulo. “Tu e io e basta?” domanda sospettoso. “Sì, solo noi due. Ti va?”.
Si scioglie in un sorriso sgangherato e irresistibile. “Mamma, spacchi!”.
L’entusiasmo di un sì mi fa soprassedere alle aberrazioni del suo eloquio,
mutato dai fratelli. Esploriamo ancora il mondo per mano, felici di ritrovarci
accanto, necessari l’uno all’atra, simbiotici, ancora per qualche anno. Lo
scrittore Mohsin Hamid, nel suo struggente Exit
West, che parla di amori e migrazioni, scrive, riferendosi a un padre: “Era
arrivato a quel momento della vita in cui un genitore sa che, nel caso di
un’inondazione, farebbe meglio a lasciar andare il figlio, al contrario di quello
che gli diceva l’istinto quando era più giovane, perché trattenendolo non lo
proteggerebbe, ma lo tirerebbe giù, rischiando di farlo affogare, perché ormai
il figlio è più forte dei genitori…”. Tutto finisce, anche il tempo
dell’onnipotenza. Godiamocelo finché dura e impariamo a smettere i panni di
superman in tempo. La vita del supereroe alla lunga può essere massacrante per
noi e per loro. E forse a un certo punto, tornare irresponsabili ha anche
qualche vantaggio.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 4
novembre 2017 -
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