È Stato Il Sogno della “sua” Africa a spingere
l’inglese Jane Goodall in Tanzania. Dove è diventata la più grande esperta
dell’habitat degli scimpanzé, insegnano al mondo l’intelligenza di questi
nostri possibili antenati. Oggi, a 83 anni, Jane Goodall è la protagonista di
Jane, documentario del National
Geographic diretto da Brett Morgen e presentato alla Festa del Cinema di
Roma. Il documentario – con la colonna sonora di Philip Glass – attinge a cento
ore di immagini d’archivio inedite (girate dal grande fotografo, nonché marito
dell’etologa e antropologa, barone Hugo Van Lawick) e narra la storia della
straordinaria scienziata la cui ricerca sui primati ha rivoluzionato il
pensiero scientifico – fino ad allora solo maschile – riguardo la comprensione
della natura. Quando il National
Geographic mi ha suggerito l’idea del documentario, la mia prima reazione è
stata: “Un altro film su di me? A chi potrà mai interessare?”, ci dice una
vivacissima Goodall, avvolta in una sciarpa dai colori sgargianti e con i
capelli bianchi raccolti in una sbarazzina coda di cavallo. “Ma Brett, il
regista, ha insistito parecchio e così abbiamo fatto una lunga chiacchierata.
L’intervista, realizzata a casa mia, è durata due giorni. Mi sono davvero
divertita, perché ho sentito la sua curiosità”. Jane mostra tanti filmati su
lei ed il suo lavoro che erano stati dati per persi. Che cosa ha provato a
rivederli dopo tanto tempo? E a rivedersi giovane? “Mi hanno riportato
all’entusiasmo degli inizi. Che, del resto, non era mai venuto meno. In quelle
immagini c’è più della mia vita personale che in qualsiasi altro documentario.
Quelli sono stati i giorni migliori della mia vita”. Lei vi appare molto serena, ma era davvero così? “A volte ho avuto
anche paura: prima che si abituassero a me, gli scimpanzé erano imprevedibili,
spesso aggressivi. Credevano che fossi io la predatrice, si sentivano
minacciati da me che pure ero una ragazza minuta, mite: Ma che ne sapevano,
poverini! Loro stavano sugli alberi e io facevo finta di niente. Però alla fine
mi hanno accettata”. Pensa che il
documentario riuscirà a parlare ai giovani? “Oggi il mondo è più confuso
che mai, stiamo vivendo un momento difficile: povertà, crescita demografica
eccessiva, disparità, stili di vita insostenibili e così via. Le risorse di
madre natura rischiano di esaurirsi: credo che questo documentario mostri come
dovremmo fare per proteggere il pianeta. Esorta le persone a lottare per
salvare il salvabile”. Dovremmo di nuovo innamorarci di madre natura? “È così.
Credo che dalle scimmie si possa imparare la scienza. Ricordo quando da giovane
studiavo a Cambridge e i grandi pezzi da novanta, i PhD, i professoroni
insomma, mi dicevano che stavo facendo tutto male, che mi sbagliavo, che avrei
dovuto dare agli scimpanzé dei numeri, non dei nomi. Ma io sentivo che anche
agli animali bisogna dare un nome, che non sono materia di studio fredda,
distaccata. Un cane, un gatto, un cavallo o un primate hanno menti,
personalità, soprattutto sentimenti. Gli animali provano emozioni primarie, non
dobbiamo dimenticarlo. Studiando le loro relazioni, studiamo anche le nostre
stesse origini”. Come donna, e come
ricercatrice, si è mai sentita discriminata? “Non pensavo che sarei
diventata una scienziata, non stavo cercando di fare strada in un mondo
dominato dai maschi. Volevo essere una naturalista, certo, e mi sentivo dire
che no, una ragazza non poteva aere queste pretese, non poteva fare ricerca sul
campo e sporcarsi le mani…Ma aveva alle spalle una madre che mi ha sempre
detto: “Se vuoi ottenere qualcosa, cerca di ottenerla. Non arrenderti mai”. Le
devo tutto. Per lei, che apparteneva a un’altra generazione, era stato
impossibile rompere il soffitto di cristallo. So che è stata fiera di me. Sì, è
stato più difficile imporsi fra i maschi che fra gli scimpanzé.
Silvia Bizio – Dialoghi – Donna di La Repubblica – 11
novembre 2017 -
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