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martedì 14 novembre 2017

Lo Sapevate Che: Mamma se mi lasci andare ti porto con me...



“Hai presente i Videogiochi?”, domandò tempo fa mio figlio di mezzo. “Più o meno”, risposi io che, essendo soggetto a rischio di dipendenze, una notte di moltissimi anni or sono mi ritrovai a giocare per sette ore consecutive a Guerre Stellari, capendo di dover smettere per sempre con quella droga. “Hai presente quello in cui devi esplorare dei posti?”, incalzò. “Certo”, dissi, ripensando con struggimento al pianeta Yaris dell’universo espanso su cui approdai, dentro un guscio di salvataggio, in quella notte viziosa. “C’è un tasto”, proseguì, “che puoi schiacciare per vedere le mappe: le terre che hai già esplorato sono colorate, quelle che ti mancano sono grigie. Io a volte mi sento come dentro uno di quei videogiochi: prima conoscevo le case intorno alla nostra e la strada per andare alla scuola elementare, e tutto il resto era grigio nella mappa della mia mente”, “E adesso, invece?”. Adesso l’area colorata è molto più grande perché ho imparato anche la strada per andare alle medie”. Gli chiesi se gli piacesse. “Da morire! Voglio che la mia vita sia tutta un colorare nuove terre”. Non è più il bambino sottile con i ricci pazzi e gli occhi tondi che avevo incontrato minuscolo. È un ragazzino: il corpo che cambia, lo sguardo inquieto, tenerezza e spigoli, smarrimenti e sicurezza, pensieri luminosi e interrogativi esistenziali. Nei videogiochi (e, se si è fortunati e avventurosi, anche nella vita) l’ignoto si colora man mano che procediamo. I grigi si fanno blu, rossi, gialli e schiudono segreti e meraviglie. Con i figli, però, funziona al contrario: quando sono piccoli abbiamo l’impressione, o l’illusione, di sapere tutto di loro e anche di più. “Mamma, secondo te mi piace?”, domandavo al cospetto di un cibo mai assaggiato, così come i miei bambini lo hanno domandato anni dopo a me. All’inizio il loro orizzonte è quello che noi abbiamo scelto di mostrare. I loro sogni sono i nostri. Le loro parole sono quelle che noi abbiamo pronunciato per loro. Poi diventano grandi, e colorano territori per noi grigi, acquisiscono competenze a noi aliene, incontrano loro simili di cui ignoriamo l’esistenza. È allora che dobbiamo lasciarli andare, perdendo così, tra gli altri, il superpotere dell’onniscienza. Eppure, a pensarci bene, è proprio allora che potrebbe cominciare il bello. Perché se stiamo buoni, ci facciamo piccoli, non poniamo troppe domande e ci mettiamo in ascolto, a volte ci porteranno con sé. Ci prenderanno per mano, verso territori in cui non ci saremmo mai avventurati. Con mio figlio maggiore ho scoperto la vertigine di Instagram, la musica indipendente italiana, la ricerca dell’humus, l’antica e talvolta deprimente pratica del friendzonare (“In partica spieghi a una tipa che ti interessa come amica e basta. E scialla. Capito, mamma?”), i segreti per una tartaruga addominale sana e forte, Con il medio ho imparato le insidie della classifica del campionato di calcio di serie A, mi sono ritrovata a tifare Juventus e a cercare i biglietti per lo stadio, ho ascoltato le parodie di tutte le canzoni in classifica e conosciuto Youtuber di cui avrei fatto a meno. E ho appena iniziato a viaggiare con loro. Il terzogenito è piccolo per ballare da solo, ma ha deciso che da grande farà lo scienziato e io non vedo l0ora di sperimentare attraverso il suo sguardo. Lasciarli andare a colorare nuove terre è un atto di generosità, talvolta un sacrificio doloroso. Eppure moltiplicare i nostri occhi, amplificare il nostro udito attraverso le loro orecchie, saggiare nuovi contorni con le loro dita è un inestimabile privilegio, è la magia di un caleidoscopio, è il migliore video-gioco di sempre.
Claudia de Lillo – Opinioni - Donna di La Repubblica – 11 novembre 2017-

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