“Hai presente i
Videogiochi?”,
domandò tempo fa mio figlio di mezzo. “Più o meno”, risposi io che, essendo
soggetto a rischio di dipendenze, una notte di moltissimi anni or sono mi
ritrovai a giocare per sette ore consecutive a Guerre Stellari, capendo di dover smettere per sempre con quella
droga. “Hai presente quello in cui devi esplorare dei posti?”, incalzò.
“Certo”, dissi, ripensando con struggimento al pianeta Yaris dell’universo
espanso su cui approdai, dentro un guscio di salvataggio, in quella notte
viziosa. “C’è un tasto”, proseguì, “che puoi schiacciare per vedere le mappe:
le terre che hai già esplorato sono colorate, quelle che ti mancano sono
grigie. Io a volte mi sento come dentro uno di quei videogiochi: prima
conoscevo le case intorno alla nostra e la strada per andare alla scuola
elementare, e tutto il resto era grigio nella mappa della mia mente”, “E
adesso, invece?”. Adesso l’area colorata è molto più grande perché ho imparato
anche la strada per andare alle medie”. Gli chiesi se gli piacesse. “Da morire!
Voglio che la mia vita sia tutta un colorare nuove terre”. Non è più il bambino
sottile con i ricci pazzi e gli occhi tondi che avevo incontrato minuscolo. È
un ragazzino: il corpo che cambia, lo sguardo inquieto, tenerezza e spigoli,
smarrimenti e sicurezza, pensieri luminosi e interrogativi esistenziali. Nei
videogiochi (e, se si è fortunati e avventurosi, anche nella vita) l’ignoto si
colora man mano che procediamo. I grigi si fanno blu, rossi, gialli e schiudono
segreti e meraviglie. Con i figli, però, funziona al contrario: quando sono
piccoli abbiamo l’impressione, o l’illusione, di sapere tutto di loro e anche
di più. “Mamma, secondo te mi piace?”, domandavo al cospetto di un cibo mai
assaggiato, così come i miei bambini lo hanno domandato anni dopo a me.
All’inizio il loro orizzonte è quello che noi abbiamo scelto di mostrare. I
loro sogni sono i nostri. Le loro parole sono quelle che noi abbiamo
pronunciato per loro. Poi diventano grandi, e colorano territori per noi grigi,
acquisiscono competenze a noi aliene, incontrano loro simili di cui ignoriamo
l’esistenza. È allora che dobbiamo lasciarli andare, perdendo così, tra gli
altri, il superpotere dell’onniscienza. Eppure, a pensarci bene, è proprio
allora che potrebbe cominciare il bello. Perché se stiamo buoni, ci facciamo
piccoli, non poniamo troppe domande e ci mettiamo in ascolto, a volte ci
porteranno con sé. Ci prenderanno per mano, verso territori in cui non ci
saremmo mai avventurati. Con mio figlio maggiore ho scoperto la vertigine di
Instagram, la musica indipendente italiana, la ricerca dell’humus, l’antica e
talvolta deprimente pratica del friendzonare (“In partica spieghi a una tipa
che ti interessa come amica e basta. E scialla. Capito, mamma?”), i segreti per
una tartaruga addominale sana e forte, Con il medio ho imparato le insidie
della classifica del campionato di calcio di serie A, mi sono ritrovata a
tifare Juventus e a cercare i biglietti per lo stadio, ho ascoltato le parodie
di tutte le canzoni in classifica e conosciuto Youtuber di cui avrei fatto a
meno. E ho appena iniziato a viaggiare con loro. Il terzogenito è piccolo per
ballare da solo, ma ha deciso che da grande farà lo scienziato e io non vedo
l0ora di sperimentare attraverso il suo sguardo. Lasciarli andare a colorare
nuove terre è un atto di generosità, talvolta un sacrificio doloroso. Eppure
moltiplicare i nostri occhi, amplificare il nostro udito attraverso le loro
orecchie, saggiare nuovi contorni con le loro dita è un inestimabile
privilegio, è la magia di un caleidoscopio, è il migliore video-gioco di
sempre.
Claudia de Lillo – Opinioni - Donna di La Repubblica – 11
novembre 2017-
Nessun commento:
Posta un commento