Un Anno Dopo sono tornato sul luogo del delitto.
Nel Midwest, cioè dove si è giocata davvero la sfida tra Donald e Hillary. Una
manciata di Stati industriali ha deciso il destino dell’America e, in parte,
del mondo. Poche centinaia di migliaia di operai bianchi, e le loro mogli,
hanno fatto una scelta gravida di conseguenze- Alcuni erano stati democratici e
avevano votato Obama, ma un anno fa hanno preferito Trump. Tra questi ci sono
anche italoamericani. Ne ho incontrati parecchi, girando tra il Michigan,
l’Ohio, la Pennsylvania occidentale. La prima cosa che colpisce, politica a
parte, è la solidarietà etnica. “Paisano” (con la i): quante volte mi sono
sentito apostrofare in questo modo appena ho dichiarato la mia origine. E
quante porte mi si sono spalancate di colpo. I nostri emigrati, anche se non
conoscono più la lingua né il dialetto degli avi, diventano subito cordiali,
ospitali generosi, e molto loquaci. Mi parlano di sé, mi invitano a casa mi
presentano mogli e figli, accettano di rispondere alle domande più scomode o
indiscrete sulle loro scelte politiche. Sulle armi che hanno in casa. Su quanto
guadagnano. Ogni filtro, ogni privacy crollano di fronte a un “paisano” in
visita. Con una piccola variante, una leggera punta di rammarico, quando alle
domande più precise sulle mie origini devo confessare che mia mamma è ligure e
mio padre era lombardo. Colgo subito un accenno di delusione nei miei
interlocutori, un velo invisibile che cala negli occhi, un’impercettibile
distanza che si crea. Prima che italiani, loro di solito si sentono di origini
siciliane o campane, calabre o lucane. È come se le differenze nord-sud fossero
state tramandate dai bisnonni o dai nonni che emigrarono qui: un lascito
incancellabile, la consapevolezza che esistono altri italiani storicamente più
ricchi, privilegiati, non proprio “paisani” (diversa fu la mia esperienza
all’arrivo in California vent’anni fa: là c’è un’antica emigrazione ligure,
toscana e piemontese, ricordo di un’epoca in cui anche noi settentrionali
eravamo poveri). Entrando nelle case di tanti operai o ex operai italoamericani
del Medwest, uno degli interrogativi riguarda l’atteggiamento verso le ondate
d’immigrazione più recenti. Se hanno votato Trump è perché i nuovi arrivati non
gli piacciono? Le risposte che ricevo si assomigliano. Provano un senso di
nostalgia, e di orgoglio, verso la stoia della nostra emigrazione. Sono fieri
dei genitori, nonni e bisnonni, ricordano un passato di miseria, sacrifici, Lo
associano a una forte etica del lavoro: si sono meritati una condizione
migliore perché chi li ha preceduti ha lavorato duro, senza chiedere favori a
nessuno. Ai figli e nipoti, gli oriundi italiani hanno insegnato una morale
severa: rispetta le regole e sarai rispettato, lavora più degli altri, impara
l’inglese e dimentica il suo dialetto, di italiano conserva il senso della
famiglia. È così che siamo diventati ex poveri, oggi ben inseriti in questo
paese, fieri di essere americani, patrioti e perfino nazionalisti. Troppi degli
immigrati più recenti gli sembrano agli antipodi dei nonni italiani: continuano
a parlare spagnolo e non imparano l’inglese, appena arrivati si arrangiano per
ottenere qualche sussidio del Welfare, i loro figli non studiano e formano
gang, li ritroviamo per strada a spacciare droga (naturalmente in queste
semplificazioni si perde qualcosa della nostra storia, non tutta immacolata,
per esempio in fatto di criminalità). I miei italoamericani del Midwest
riconoscono che le diseguaglianze sociali oggi sono estreme, insopportabili,
vedono attorno a sé troppa miseria. Ma hanno paura che, da questa miseria
nuova, qualcuno cerchi di uscire con la violenza. Per questo tanti paisani oggi
tengono armi in casa.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 28
ottobre 2017 -
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