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sabato 11 novembre 2017

Lo Sapevate Che: La squadra multietnica del piccolo Trump...



Questa Settimana Vorrei parlarvi di calcio, di football, di soccer come lo chiamano soltanto negli Stati Uniti d’America. No, calma, non scappare, non intendo discutere di Nazionale o di tattiche. Vorrei parlarvi di un bambino di undici anni che porta un cognome famoso: Barron William Trump. Dall’inizio di settembre, Barron, bel ragazzino dall’espressione sempre un po' malinconico, frequenta la Sesta classe, la nostra Prima media, nella Scuola episcopale St. Andrews, nel sobborgo più chic di Washington, Potomac. Ogni mattina, il Suv dei Servizi segreti corre per i 30 minuti che separano la scuola dalla Casa Bianca, seguito da un altro minivan di scorta con gorilla armati e paramedici, e gli agenti ronzano attorno all’aula, alla mensa, al cortile, al campo sportivo, fino alle tre del pomeriggio, quando lo riprendono in carico e lo riportano a casa Bianca. Gli agenti sono bravissimi e cercano d non farsi notare. Impiegano molte donne, che più facilmente si confondono con le professoresse, evitando il soluto rigido tailleur nero di ordinanza, ma neanche i più abili possono travestirsi da albero o da sedie. Ricordo quando uno dei miei nipotini giocava nella stessa squadra del figlio di Denis Mc Donough, il Capo gabinetto di Obama, come erano riconoscibili i santi protettori del padre a bordo campo, Si vestivano da padri nel weekend, con felpe, jeans e T-shirt, ma li tradiva il loro guardare dappertutto meno che al gioco, spesso dalla parte opposta dell’azione. Come mia moglie, nella prima (e unica) volta che la trascinai a San Siro. La vita di Barron, come hanno testimoniato tutti i figli piccoli del Presidente, non è piacevole, in quella sontuosa prigione dove c’è sempre un occhio, umano o elettronico, che ti osserva, a  scuola tutti sanno chi sei e non puoi mai uscire da solo, per un gelato, un panino, un cinema o, in futuro con un ragazzo o una ragazza. “Nessun ragazzo oserà mai fare una mossa al cinema, sapendo di avere seduti alle spalle due agenti dei Servizi segreti, sospirò Jenna Bush una delle gemelle teen ager di George W. L’unico momento nel quale Barron può essere soltanto un undicenne come gli altri è quando indossa la maglia e sfoga la sua passione: il calcio, il pallone, il soccer. Pare che sia bravino e lo dimostra il suo essere entrato nel team ufficiale della St. Andrews School, perché se lo sport ha un pregio spietato è che nessuno può nascondersi dietro il proprio nome. Se sei scarso lo vedono tutti e i compagni ti boicottano, altrimenti i figli di Berlusconi o degli Agnelli avrebbero giocato nel Milan o nella Juve. Sono andato a spulciare la formazione di quella squadra, pubblicata quando ha partecipato a un torneo ufficiale in ottobre. Ho viso che Barron porta il numero 81 e tra i suoi compagni di squadra ci sono Mataj, Alejandro, Iva, Khaleb, Carlos, Ifasen, Alonzo, insieme con qualche nome “anglo”. Dunque, la squadra nella quale Barron calcia ed è felice è lo specchio fedele di quell’America multietnica e multilingue del 2017 che il suo papà aborre e i suoi elettori più fanatici vorrebbero sbianchettare e riportare al ‘700. Undici anni sono ancora pochi per mettere in discussione l’autorità paterna, soprattutto se il papà è il Comandante in Capo e Presidente. Ma la squadra nella quale Barron gioca è molto diversa dal mondo color lattemiele delle scuole private ed esclusive nel quale Donald crebbe, sessant’anni or sono. E forse un giorno, fra un anno o due, da teen ager figlio di un’immigrata con un cognome molto poco “wasp”, Knavs, da compagno di squadra che abbraccia, ride, protesta ed esulta con arabi, iraniani, latinos con la sua stessa maglietta, chiederà al padre magari con un tweet: Papà, perché odi tanto quelli che giocano a pallone con me?
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 4 novembre 2017 -

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