Questa Settimana Vorrei
parlarvi di calcio,
di football, di soccer come lo
chiamano soltanto negli Stati Uniti d’America. No, calma, non scappare, non
intendo discutere di Nazionale o di tattiche. Vorrei parlarvi di un bambino di
undici anni che porta un cognome famoso: Barron William Trump. Dall’inizio di
settembre, Barron, bel ragazzino dall’espressione sempre un po' malinconico, frequenta
la Sesta classe, la nostra Prima media, nella Scuola episcopale St. Andrews,
nel sobborgo più chic di Washington, Potomac. Ogni mattina, il Suv dei Servizi
segreti corre per i 30 minuti che separano la scuola dalla Casa Bianca, seguito
da un altro minivan di scorta con gorilla armati e paramedici, e gli agenti
ronzano attorno all’aula, alla mensa, al cortile, al campo sportivo, fino alle
tre del pomeriggio, quando lo riprendono in carico e lo riportano a casa
Bianca. Gli agenti sono bravissimi e cercano d non farsi notare. Impiegano
molte donne, che più facilmente si confondono con le professoresse, evitando il
soluto rigido tailleur nero di ordinanza, ma neanche i più abili possono travestirsi
da albero o da sedie. Ricordo quando uno dei miei nipotini giocava nella stessa
squadra del figlio di Denis Mc Donough, il Capo gabinetto di Obama, come erano
riconoscibili i santi protettori del padre a bordo campo, Si vestivano da padri
nel weekend, con felpe, jeans e T-shirt, ma li tradiva il loro guardare
dappertutto meno che al gioco, spesso dalla parte opposta dell’azione. Come mia
moglie, nella prima (e unica) volta che la trascinai a San Siro. La vita di
Barron, come hanno testimoniato tutti i figli piccoli del Presidente, non è
piacevole, in quella sontuosa prigione dove c’è sempre un occhio, umano o
elettronico, che ti osserva, a scuola
tutti sanno chi sei e non puoi mai uscire da solo, per un gelato, un panino, un
cinema o, in futuro con un ragazzo o una ragazza. “Nessun ragazzo oserà mai
fare una mossa al cinema, sapendo di avere seduti alle spalle due agenti dei
Servizi segreti, sospirò Jenna Bush una delle gemelle teen ager di George W.
L’unico momento nel quale Barron può essere soltanto un undicenne come gli altri
è quando indossa la maglia e sfoga la sua passione: il calcio, il pallone, il
soccer. Pare che sia bravino e lo dimostra il suo essere entrato nel team
ufficiale della St. Andrews School, perché se lo sport ha un pregio spietato è
che nessuno può nascondersi dietro il proprio nome. Se sei scarso lo vedono
tutti e i compagni ti boicottano, altrimenti i figli di Berlusconi o degli
Agnelli avrebbero giocato nel Milan o nella Juve. Sono andato a spulciare la
formazione di quella squadra, pubblicata quando ha partecipato a un torneo
ufficiale in ottobre. Ho viso che Barron porta il numero 81 e tra i suoi
compagni di squadra ci sono Mataj, Alejandro, Iva, Khaleb, Carlos, Ifasen,
Alonzo, insieme con qualche nome “anglo”. Dunque, la squadra nella quale Barron
calcia ed è felice è lo specchio fedele di quell’America multietnica e
multilingue del 2017 che il suo papà aborre e i suoi elettori più fanatici
vorrebbero sbianchettare e riportare al ‘700. Undici anni sono ancora pochi per
mettere in discussione l’autorità paterna, soprattutto se il papà è il
Comandante in Capo e Presidente. Ma la squadra nella quale Barron gioca è molto
diversa dal mondo color lattemiele delle scuole private ed esclusive nel quale
Donald crebbe, sessant’anni or sono. E forse un giorno, fra un anno o due, da
teen ager figlio di un’immigrata con un cognome molto poco “wasp”, Knavs, da
compagno di squadra che abbraccia, ride, protesta ed esulta con arabi,
iraniani, latinos con la sua stessa maglietta, chiederà al padre magari con un
tweet: Papà, perché odi tanto quelli che giocano a pallone con me?
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 4
novembre 2017 -
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