Alcuni dei bambini strappati ai
genitori dopo il golpe di Videla potrebbero essere cresciuti nel nostro paese.
Oggi, con le Nonne di Plaza di Mayo, c’è chi li sta cercando
“Se sei nato
tra il 1975e il 1980 e hai dei dubbi sulla tua identità, puoi contattare
l’ambasciata Argentina in Italia”. Con questo appello stampato e una valigetta
stracolma di volantini, Carlos Cheniak sale e scende senza sosta dai treni
italiani. “Sono convinto che si trovino in Italia”, dice al Venerdì dal telefonino, mentre cerca un
angoletto nel convoglio Milano-Roma per non restare senza campo.
Nelle sue
vesti di ministro per i Diritti Umani, Cheniak coordina la campagna per il
diritto dell’identità lanciata dai diplomatici argentini a Roma. Il compito è
davvero impegnativo: rintracciare in Italia i figli sottratti ai desaparecidos come trofeo di caccia
durante l’ultima dittatura argentina. Ma non solo. La ricerca parte dai nati un
anno prima del golpe, quando i paramilitari della vedova di Peròn, i pasdaran
del peronismo di destra, aprivano le porte dell’inferno.
L’iniziativa
diplomatica è affiancata dalle più prestigiose università italiane. Dai tre
principali sindacati e da tanti sindaci: una troika che garantisce
all’ambasciata la rete territoriale per far passare il messaggio. Chi si reca
agli sportelli dell’anagrafe troverà, probabilmente, appeso il manifesto con
l’appello. C’è da rastrellare fino in fondo per trovare questi giovani tra 34 e
39 anni che vivono sotto una falsa identità, ignari della loro provenienza.
A cercarli
da una vita sono le nonne, che vanno dietro le orme di ben 500 nipoti nati in cattività.
Le Nonne di
Plaza de Mayo (Npm) ne hanno finora ritrovati 113, di cui una decina proprio
LL’ESTERO. Alcuni, ahimè, “riapparsi” morti: le mamme furono sepolte uccise
incinte e sepolte in fosse comuni, come i repubblicani della guerra civile
spagnola o i neri sgozzati dell’Apartheid sudafricano”.
“Molti dei
nostri nipoti potrebbero essere stati portati in Italia da piccoli; oppure, da
adulti, aver deciso di emigrare dopo le nostre crisi economiche”, racconta
Estela Carlotto, da Buenos Aires. La presidente delle Npm e precandidata al
Nobel per la Pace spiega che “per identificarli, abbiamo versato del nostro
sangue in una banca di dati genetici creata trent’anni fa, un anno dopo il
crollo della dittatura”. Sangue che resta congelato e che può essere
confrontato da chiunque, anche in modo postumo, quando le nonne non ci saranno
più per festeggiare.
Festeggiare,
sì. Ogni volta che un giovane riacquista la propria identità, le abuelas organizzano una cerimonia dove
tutto è gioia. Il nipote ritrovato abbraccia sua nonna – una perfetta
sconosciuta fino a poco prima e riceve delle scatole con i ricordi dei genitori
scomparsi: fotografie, pezzettini di carta manoscritta, nastri di audio con le
voci di papà e mamma e, se ci fossero, gli scarpini tessuti dalla madre prima
che piombassero i boia.
E se il
sangue da testare fosse ora italiano?
Da qualche
mese sono in arrivo telefonate al centralino dei consolati di Roma e Milano.
Cherniak le smista con la massima riservatezza e propone al richiedente di
vedersi di persona. Non importa dove. Il diplomatico prende la sua
ventiquattrore e ci va. Se il sospetto dopo l’incontro si rafforza, scatta la
linea diretta con Buenos Aires: la Commissione nazionale per il diritto
all’identità valuta il caso e adopererà i consolati in Italia per prelevare, in
loco, la prima goccia di sangue. Un sigillo di ceralacca sul corriere
diplomatico e via: il Dna finisce a Buenos Aires, dove sarà paragonato con
l’intera banca genetica delle nonne.
In mezzo
agli italiani, per esempio, potrebbe vivere Guido, il nipote di Estela
Carlotto.Nel 1977, sua figlia Laura fu costretta a partorire nell’ospedale
militare e ribattuta in cella senza suo figlio. Era il modus operandi per attuare il genocidio. Dopo poco venne trucidata
e la salma fu consegnata a Estela. Zero tracce del neonato. La mamma fece solo
in tempo a dargli un nome.
L’instancabile
Cherniak prosegue il suo tour de force su e giù per lo Stivale italiano. Corre
allo sfinimento, organizza conferenze stampa, seminari e incontri con le parti
sociali. “Ragazzi” arringa l’aula magna dell’Università di Roma Tre, zeppa di
studenti. “Hanno massacrato un’intera generazione della vostra età. Questa tragedia non è lontana. Dobbiamo
trovarli. Sono ora di noi”.
Agli
scettici il diplomatico spiega:
“L’Argentina è il Paese più italiano dopo l’Italia. Guardate un po’ i
cognomi dai carnefici se ve ne renderete conto” In effetti, molti dei figli
della diaspora italiana nati nel Sudamerica girano con due passaporti in tasca;
un “nullaosta” per espatriare i figli sottratti nipoti . “Molti nipoti
potrebbero risultare all’anagrafe come cittadini italiani”, scommette Cherniak,
che chiede ai dindaci di spulciare fino in fondo nei registri comunali.
Malgrado gli anni trascorsi, Carlotto avverte: all’estero si sono ancora
torturatori latitanti. Quelli rimasti in argentina, invece, sono dietro le
sbarre. L’x presidente Néstor Kirchner ha dato un forte impulso ai processi
contro i militari. Jorge Videla, l’artefice dell’orrore, è morto l’anno scorso
in una cella ordinaria; niente arresti domiciliari. In attesa di uno come
Kirchner, le nonne si erano date da fare per cercare giustizia altrove. Il
magistrato iberico Balasar Garzòn fece condannare a Madrid gli aguzzini Rido Cavallo e Adolfo Scilingo. Ancora quei
cognomi italici…”Una decina di spagnoli ci avevano avvertito di un uomo
dell’aspetto strano, arrivato nel loro quartiere, che girava con un bambino che
pareva non fosse suo”, puntualizza Estela, che sottolinea l’importanza del
passaparola. “E coì l’abbiamo incastrato”, dice con soddisfazione simile a
quella di Simon Wiesenthal quando beccava un nazista nascosto. Ogni volta che
un torturatore finisce all’ergastolo, i figli sopravvissuti dei desaparecidos
cantano: “Olé, olé/ olé, olaaa / come ai nazisti gli succederà / ovunque vadano
li andremo a cercar”.
Non solo la
Spagna. Anche l’Italia ha cambiato atteggiamento. Un argentino esiliato a Roma,
Jorge Ithurburu, dell’onlus 24 marzo.it, ha
per decenni mosso mari e monti per far capire alle toghe italiane che i crimini
contro l’umanità nel suo Paese fossero imperscrittibili ma, soprattutto,
perseguibili universalmente. Gli hanno dato retta e, nel 2007, la Corte di
Assise di Roma ha condannato all’ergastolo cinque seviziatori per l’uccisione
di italiani in Argentina. L’ammiraglio Emilio Massera, numero due di Vileda, è
morto mentre era indagato dallo stesso tribunale. Massera faceva parte della P2
di Licio Gelli, che vantava passaporto argentino e occupava addirittura la stessa poltrona che oggi tocca
a Cherniak. Erano tempi in cui l’ambasciatore italiano a Buenos Aires chiudeva
il cancello in faccia ai condizionali che vi s’accalcavano chiedendo aiuto. Ma
c’era uno che lo scavalcava: Enrico Calamai, lo Schindler italiano, il giovane
console che rischiò la pelle garantendo salvacondotti a chiunque volesse
fuggire da quell’incubo. Uno dei passaporti italiani rilasciati sotto banco da
Calamai nel 1976 ha salvato la vita a Claudio Tognonato, oggi professore di
Sociologia all’Università Tre. Questo docente coordina gli atenei italiani alla
ricerca dei nipoti, con una pagina Facebook, reti sociali e una ventina di
video online con le testimonianze dei ragazzi ritrovati. “L’atteggiamento
dell’Italia è oggi positiva ammette Tognonato, autore di Affari nostri, diritti umani e rapporti Italia-Argentina 1976-1983
(Fandango, 2012). Tuttavia, gli intrighi della P2 sono ancora forti e Roma
mantiene gli archivi chiusi. Finora sono stati consegnati agli argentini tre
plichi con dossier, seppur filtrati, appartenenti all’ambasciata d’Italia a
Buenos Aires. Quest’anno potrebbe arrivare il quarto faldone. A consegnarlo
ufficialmente sarebbe la ministra della Difesa Federica Mogherini, di persona,
in Argentina. Sarà la volta che i file della Farnesina verranno alla luce? Le
nonne sanno aspettare. Il loro sangue non scade.
Matìas
Marini Venerdì di Repubblica – 30 Maggio 2014 -
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